La Storia è impressa in quella data, 10 maggio 1987, e in quel fermimmagine della memoria c’è la rivoluzione calcistica che si compie: accadde venticinque anni fa e ora, mentre il tempo sfugge via, ciò che resta d’uno scudetto è, immutabilmente, la sua essenza, il suo fascino, la magìa che rivive attraverso i ricordi e che rappresentano una felicità persino viva in Corrado Ferlaino, il presidente dell’impresa.
Ferlaino, cosa rimane del primo scudetto.
«L’orgoglio di aver abbattuto un tabù; di essere riuscito finalmente a rimuovere un’ossessione: perché noi il titolo lo avevamo sfiorato altre volte e io, fino a quando l’arbitro non ha fischiato la fine della partita con la Fiorentina, tremavo dalla paura».
Come si diventa campioni d’Italia?
«Con Maradona, divenne tutto più semplice. Eravamo stati in corsa in altre circostanze, ma ci era mancata la maturità, la mentalità, forse la sicurezza. Noi lo volevamo e Diego porto con sé non solo il suo ineguagliabile talento, ma una autorevolezza che rimosse gli choc precedenti. Lui ci trasformò, trasmise ai compagni la sua capacità di dominare gli eventi».
Senza scendere nella retorica, quel trionfo ebbe una valenza sociale.
«Fu una sorta di ribaltone, perché il potere pure all’epoca era altrove: al Sud peninsulare non si era mai vinto. Ma – e non per andare controcorrente – quella fu soprattutto un’occasione perduta dalla città. Il successo del Napoli, più in generale quel ciclo, poteva essere sfruttato come traino. Invece, il Paese cambiò, ci fu Mani Pulite, la città è scaduta, sino a diventare il simbolo della immondizia».
Qualcosa sta cambiando, ora?
«Mi incuriosisce De Magistris, però qui i turisti sono sempre meno che a Milano, in via Montenapoleone. Napoli è una calamita, per le sue bellezze naturali; e con Maradona e quella squadra e quell’atmosfera avrebbe dovuto approfittarne».
Cos’era il suo calcio?
«I miei avversari erano non solo le condizioni economiche del Mezzogiorno ma la Juventus dell’Avvocato Agnelli, poi il Milan nel quale arrivò Berlusconi, l’Inter che aveva solidità e capitali: insomma, non è mutato granché il quadro generale».
Però aveva una classe politica al fianco.
«Un CdA nel quale c’erano figure di spicco, e penso a Siniscalchi, a Punzo, a D’Angelo; ed è vero che a quel tempo c’era De Mita segretario della Dc, ministri come Scotti, Pomicino, Gava, Di Lorenzo. Però quel Napoli incassava venticinque miliardi di lire e ne costava trentacinque».
La forbice con le Grandi – dal punto di vista economico – pare più netta ora.
«Mi permetta di dissentire: stavolta le tv danno potenziale ricchezza, allora c’era la Rai, il Totocalcio e il botteghino. Non c’era pay-tv, non c’era Digitale. Difficile sviluppare il marketing».
Però è finita male, nel 2004… E certo il buco aveva un pregresso.
«Con me non sarebbe mai accaduto, ma io non avevo più le risorse fisiche ed era mutato il quadro generale. I soldi, durante la belle epoque, riuscivo a trovarli in un modo o nell’altro; poi si esaurì la vena, non potevo continuare a bussare alle banche, decisi di passare la mano».
Le sue nozze d’argento con il primo tricolore.
«Mi guarderò allo specchio, un po’ compiaciuto per quello che abbiamo vinto, perché poi venne un altro scudetto, la coppa Uefa, la coppa Italia e la supercoppa italiana. Arrivammo secondi nel 1988…».
Che ancora le fa rabbia….
«Penso che quella fosse la squadra più forte, in assoluto. E poi perdere non m’è mai piaciuto».
Segreti inconfessabili….
«Le preoccupazioni non mancavano, se devo ascrivermi un merito è stato quello di aver tenuto la camorra lontana dal Napoli. Il calcio scommesse illegale era un pericolo reale. E il rischio di infiltrazioni esisteva. Una volta, eravamo nei pressi di Genova, all’allenamento si presentarono i rappresentanti di una nota famiglia: chiamai la polizia a Napoli, mi dissero ch’erano incensurati; chiamai la polizia ligure, vennero, e per non essere sottoposti a riconoscimento, lasciarono il campo».
Maradona è stato….?
«Il genio ribelle, ma il più bravo per l’eternità. Fu un colpo strepitoso, tredici miliardi e mezzo di lire per il numero 1. Come se oggi il Napoli comprasse Messi, che è indiscutibilmente il più bravo ma che non è assolutamente Maradona. Anni prima avevo comprato Savoldi, per un miliardo e quattrocento milioni: vennero fuori i moralisti. Diego metteva d’accordo chiunque: il calcio è lui».
Mica facile gestirli…
«Ottavio Bianchi è stato il loro carceriere: una persona seria, l’ideale. Seppe tenere a bada una squadra ricca di campioni e dunque complicata».
La nostalgia la prende un po’?
«Macché: da quando sono fuori, non ho mai più messo piede al san Paolo. Ora posso starmene un po’ a letto, la domenica; e al mattino posso divagare – se permette, dico cazzeggiare – e non avvertire quella tensione che mi ha privato della gioia. Le partite le vedo in tv, sempre e solo il primo tempo; poi, alla fine, rivedo le azioni. Come negli anni ’80, durante la ripresa me ne vado in giro in macchina».
Un giocatore di questo Napoli che, potendo, avrebbe inserito nel suo….
«E’ un giochino che non mi piace, perché ce ne sono di bravi pure adesso, ma proprio perché ci vuole anche leggerezza, allora mi sbilancio: non c’è dubbio, Lavezzi. E’ lo scugnizzo del Terzo Millennio».
Ora il Napoli può vincere…
«Domanda che è di pertinenza di De Laurentiis ed io per rispetto non invado gli ambiti altrui. Però devo dire che in queste stagioni c’è stato da divertirsi, una squadra che ha regalato soddisfazioni ed ha aperto alla speranza. E’ un merito che va riconosciuto».
Fonte: Corriere dello Sport
La Redazione
A.S.
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