De Laurentiis dona otto ventilatori polmonari al Cotugno e al Pascale, Insigne è stato tra i primi calciatori a mettere a disposizione centomila euro per l’ospedale dei Colli, il gruppo intero che colma il danno economico della cassa integrazione ai dipendenti. Nel microcosmo Napoli ci sono tre indizi di una verità emersa sin dalle prime battute della tragedia Covid-19: il calcio è dentro i problemi del Paese. Il pallone è stato storicamente considerato un mondo a parte, anche in maniera letteraria una “bolla” di privilegiati che s’occupano dell’arte della distrazione delle masse.
Il calcio è fermo in tutto il mondo, forse resiste solo il campionato bielorusso e la strategia per la ripartenza è nebulosa, incerta, dentro la complessità delle idee per uscire dal lockdown. L’Italia, uno dei paesi più colpiti dall’emergenza, ha scelto la sua via per entrare nella fase 2: molto graduale, più “scientista” che politica.
Ogni idea è viziata da un vuoto: l’analisi epidemiologica dov’è? Basta il termo-scanner per far ripartire i luoghi di lavoro? I test sierologici, presentati qualche settimana fa, come la svolta che avrebbe unito la rapidità delle risposte alla mappa del contagio, sembrano sotto il profilo scientifico non essere sufficienti. Qualsiasi screening ha bisogno dei tamponi per avere un’idea generale della diffusione della malattia, della percentuale degli asintomatici e della circolazione del virus. In un Paese in cui da Nord a Sud, eccetto il Veneto grazie alle capacità del Dott.Crisanti di ribaltare le indicazioni della scienza, ci sono state storie drammatiche di persone decedute mentre attendevano il tampone, di nuclei familiari abbandonati nel disastro psicologico della gestione dell’isolamento, si riparte senza una strategia chiara che coniughi l’ampliamento dei tamponi con il ritorno al lavoro di 2,8 milioni di italiani.
Il calcio anche è dentro la storia dei tamponi. Perché la Bundesliga sembra possa essere il primo campionato a ripartire? La Germania ha aggiornato al 2016 il suo piano per le pandemie (Italia nel 2010), ha sfruttato il fattore-tempo per prepararsi, è partita ad inizio emergenza con circa 28000 posti letto in terapia intensiva negli ospedali (in Italia 5300) e soprattutto è autosufficiente nella produzione dei reagenti per i tamponi molecolari, non deve dipendere dall’estero. Il calcio è uno sport di contatto, per far ripartire gli allenamenti (anche individuali o a piccoli gruppi) ha bisogno di uno screening serio: tamponi e visite mediche. La possibile ripartenza del mondo del pallone almeno per la serie A sta nella facoltà di poter realizzare i tamponi ogni quattro giorni in modo da verificare se il virus sia entrato nei ritiri.
La domanda è un’altra: c’è la volontà politica di far ripartire un’industria che elargisce alle casse dell’erario un miliardo e mezzo di euro all’anno? La sicurezza massima non ci sarà mai, il rischio zero in questa fase non esiste, il Governo vuole che i campionati terminino puntando a ridurre il pericolo al più possibile senza la possibilità di cancellarlo? La Figc è stata giustamente criticata per non aver coinvolto abbastanza nella realizzazione del protocollo i medici dei club, i protagonisti dell’eventuale della ripresa, il Governo lo sta riscrivendo con l’ausilio del comitato tecnico-scientifico, del Coni e della Fmsi, rendendo ancora meno partecipi i medici sociali. Vorremmo che il ministro Spadafora rispondesse a domande di questo tipo piuttosto che perdersi in sorrisi inopportuni. Il quesito dei quesiti è: vogliamo affrontare il problema o alzare il muro contro le “pressioni” della serie A senza provarci rifugiandosi nel populismo? Nel frattempo il calcio sbatte sul muro dell’incertezza dilagante.
Ciro Troise
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