Non prendiamoci in giro, il calcio ha preso la direzione del potere oligarchico da molto tempo. Lo dimostrano le storie di Paris Saint Germain e Manchester City, l’invasione di proprietà arabe, cinesi e americane è lo specchio della geopolitica ai tempi della globalizzazione. Il calcio è uno strumento di potere e di espansione, il Mondiale in Qatar nel 2022 è la chiusura del cerchio.
I grandi club si stanno staccando dalla visione territoriale, dalla fidelizzazione del tifoso storico a favore delle masse da conquistare in parti lontane del mondo. C’è l’esempio della Juventus che ha venduto la sua anima storica per una Star, annientando i principi per cui la squadra e l’azienda vengono prima del fuoriclasse, che sia Platini, Zidane e Del Piero.
Il campo è il giudice insindacabile: la Superlega spezza quest’equilibrio
Il progetto è fallito sul campo, a livello economico poi la pandemia ha alimentato il disastro e il risultato è che Agnelli e Paratici se ne libererebbero quanto prima possibile.
La Superlega non deve meravigliare, è un termine che da cinque-sei anni circola sulle scrivanie dei grandi presidenti. Dei segnali ci sono già stati: ricordate le dichiarazioni di Agnelli sull’Atalanta?
Il business-calcio, però, si fonda su un complesso equilibrio che ha come principio inalienabile: tutto deve muoversi sul campo, il giudice insindacabile che non si può scavalcare. L’idea di una competizione ad inviti, dove ci sono club che ne fanno parte per diritto, non solo ci fa schifo ma spezza l’equilibrio storico di questo sport. Non è solo una dichiarazione sentimentale, una battaglia ideologica ma si tratta di una visione, quella che Agnelli, Florentino e gli altri nove presidenti hanno sacrificato in onore del Dio Denaro e della guerra al sistema Uefa. Ne sanno qualcosa il Bayern Monaco, il Borussia Dortmund, il Porto che, pur avendo ricevuto la “partecipazione” per il matrimonio delle 12 “affiliate”, hanno rifiutato di far parte di questa orribile storia.
Essere contro la Superlega non significa difendere Fifa e Uefa
Essere contro la Superlega non significa difendere Fifa e Uefa, i protagonisti del declino che porta alla svolta reazionaria dei 12 “golpisti”. Il fair play finanziario ha fallito, è stato aggirato dai “super ricchi” senza che nessuno opponesse resistenze serie. Chi ha a cuore il calcio oggi ne dovrebbe proporre una versione più umana, così conquisterebbe il pubblico sconvolto dalla pandemia, che mentre magari è in cassa integrazione da più di un anno fa fatica a digerire un mondo che continua a vivere d’ingaggi fuori dal mondo. Salary cup, redistribuzione “illuminata” dei diritti televisivi, luxury tax, riforme dei campionati nazionali. La sfida è premiare il merito, rendere tutto più avvincente, senza spezzare il sogno dei tifosi di vedere la propria squadra protagonista di una favola.
Il mito del pallone è la benzina di questo business e si fonda su storie a cui non si può rinunciare: Il Leicester che vince la Premier League, l’Ajax che elimina Juventus e Real Madrid, l’Atalanta che rischia di togliere posti alla Champions a società più ricche e per un soffio non mandava fuori il Psg dalla final four.
Pensiamo ai tifosi del Napoli che in questi anni hanno visitato l’Etihad, Anfield, il Bernabeu e soltanto il Covid-19 ha impedito il viaggio al Camp Nou. Immaginando un mondo libero dal virus in cui si può tornare negli stadi, che sfizio ci sarebbe nel seguire uno sport in cui queste favole vengono spente da un sistema piramidale modello Nba?
I “golpisti” vanno fermati, non ci illudiamo di invertire la storia ma almeno di preservare l’equilibrio con un compromesso al rialzo. C’è un principio inalienabile: le competizioni per inviti ci fanno schifo, la risposta alla crisi non è aumentare la distanza tra ricchi e poveri ma ridurla, senza mai spezzare il “diritto alla favola”.
Ciro Troise
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