L’Arabia Saudita ha un grande problema con i diritti delle donne. Bravi, bravissimi. Ma di certo non lo scopriamo adesso. Lo sappiamo da tempo. Da quando l’ONU accoglieva a braccia aperte i sauditi e dava loro un seggio nella commissione per i Diritti Umani. Oppure da quando i palinsesti si riempivano di sterili discorsi sulla gente che fugge dalla guerra, mentre gli stessi che dalle tribune elettorali e dai CdA delle aziende davano aria alla bocca, vendevano armi a quella stessa Arabia Saudita che da anni mette a ferro e fuoco lo Yemen.
Ma noi siamo bravi a voltarci dall’altra parte. O peggio: a parlare bene e a razzolare male. Salvo poi avere il quarto d’ora d’indignazione a comando. E magicamente poi torna tutto come prima. E quindi adesso, giusto perché si tratta della moda del momento, scatta la polemica sul divieto per le donne di assistere, in alcuni settori, alla Supercoppa Italiana.
Così ci accorgiamo, fino al prossimo scandalo per cui indignarci, che in Arabia Saudita i diritti delle donne sono fermi al medioevo. In realtà non solo quelli. E non solo in Arabia Saudita. Ma per il momento gli operai sottopagati e schiavizzati per realizzare gli stadi di Qatar 2022 possono attendere, ma ci sarà tempo anche per loro. Adesso ci dobbiamo indignare per le donne che non possono entrare in alcuni settori dello stadio. Fino allo scorso anno allo stadio non ci potevano proprio entrare, e fino a qualche anno fa non potevano nemmeno guidare. Ma noi eravamo troppo impegnati a stingere mani, vendere armi e accettare fiumi di petrodollari. Che City e PSG non diventano big europee da sole! Che il Mondiale d’inverno sarà bellissimo! Non per gli atleti, non per i tifosi. Ma per gli sponsor, per le multinazionali, e per il carrozzone che è diventato la FIFA. E questo è quello che nel calcio moderno conta. O no?
Abbiamo sacrificato lo sport più popolare che esiste, quello per cui bastava un pallone e due giubbotti, sull’altare del più sfrenato capitalismo. E per farlo abbiamo venduto l’anima al Dio Denaro. E così i diritti delle donne, ma anche dei gay, degli stranieri, dei non-musulmani, o di chi semplicemente in quel paese non ha avuto la fortuna di nascere dalla parte di chi possiede metà del petrolio del mondo, passano in secondo piano. Di fronte ci sono sette milioni di buoni motivi per accettare. E siamo sicuri che un Agnelli o un Elliott saranno ben felici di dormire sogni tranquilli sui loro cuscini di banconote, salvo poi fare qualche inutile campagna di marketing con immagini arcolbaleno per le loro aziende.
Ed è anche inutile indignarsi con la FIGC. L’abbiamo voluta noi così. Prima il denaro, poi, forse, se avanzano briciole, la passione. Inutile dire “non giocate in Arabia Saudita” quando abbiamo accettato supinamente una deriva che ci ha portato in pochi anni ad un campionato spezzatino e sempre più condizionato dal potere della pay-tv.
Abbiamo lasciato che il calcio diventasse tutto l’opposto di quello che era uno sport popolare. Un giochino sempre più elitario, un passatempo per imprenditori milionari con sede legale in Lussemburgo e residenza fiscale in Svizzera, che competono con sceicchi pronti a riciclare nel Vecchio Continente miliardi e miliardi di petrodollari.
Almeno la smettessimo con l’ipocrisia. Smettiamola di indignarci oggi per le donne in Arabia, domani per i gay negli Emirati e dopodomani per i lavoratori sottopagati in Qatar. Questo è il calcio che abbiamo voluto, questo è il calcio che avremo. Questo è il mondo che abbiamo voluto, questo è il mondo che avremo. Perchè abbiamo deciso che l’agenda della nostra indignazione settimanale ce le dettasse chi ha come ideologia quella del money first, del denaro prima di tutto.
Abbiamo creduto che invitare i calciatori a pittarsi di rosso contro la violenza sulle donne servisse ad affrontare il problema della violenza sulle donne e non fosse solo un modo per farsi pubblicità e seguire la moda hollywoodiana del progressismo liberal tutto forma e niente sostanza. Oppure che obbligare le società a “buttare” soldi nel calcio femminile, cercando di creare artificiosamente interesse, facesse si che uno sport come il calcio femminile (diversissimo per ritmo e spettacolarità dal calcio maschile) potesse avere interesse e diventare un nuovo business su cui lucrare. Se lasciamo che le nostre battaglie vengano indirizzate da chi pensa prima al denaro non stupiamoci che poi, nel momento della verità, questa stessa gente preferisca il denaro alle nostre battaglie.
Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio
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