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Premier League e standing zone, un passo verso il tifoso. Ma in Italia ci ostiniamo ancora a puntare sul “teatro”

Una mossa in controtendenza rispetto all'Italia. E gli inglesi rischiano ancora una volta di avere ragione.

Tutti noi, specialmente se siamo tifosi di calcio, abbiamo la memoria un po’ corta. Quando si tratta della “cosa più importante tra le cose meno importanti” tendiamo a ragionare nell’arco dei 90°, al massimo di una stagione: da settembre a giugno, rigorosamente. Altro che anno solare!

Ma se ci siamo, almeno per il momento, scampati la visione di quattordici Juventus-Real a stagione, con la certezza che l’anno dopo ce ne sarebbero stati altri quattordici, pure se Juve e Real facevano sette punti assieme in campionato, lo dobbiamo anche ai tifosi inglesi.

La loro protesta contro la SuperLega del duo Perez-Agnelli ha, almeno per ora, frenato l’ultima picconata al concetto di fùtbol sull’altare del soccer. Ossia di quel concetto di calcio come sport invece di calcio come mero prodotto commerciale. Certo, qualcuno obietterà che la protesta dei tifosi inglesi è stata solo l’utile idiota di turno affinché i petrodollari degli sceicchi e dei nuovi ricchi del pallone potessero continuare a fare il bello e cattivo tempo.

Fatto sta che il rigurgito reazionario della vecchia nobiltà pallonara, dell’ancien régime con le pezze a culo, nei confronti della “rivoluzione borghese” dei nuovi ricchi del pallone, non è avvenuto anche e soprattutto per la mobilitazione del proletariato calcistico. Ossia i tifosi. Di quelli che, ultima ruota del carro, costituiscono ancora l’asset maggiore per ogni società calcistica. Tifosi che hanno preso coscienza del loro ruolo e sono passati dalla passività alla pretesa attiva.

Come ogni movimento della storia, sia esso rivoluzionario o reazionario, sia esso andato a buon fine o soffocato nel sangue (e nei debiti), una volta avvenuto le cose non possono tornare come prima.

O meglio, chiunque dotato di un minimo di intelligenza e di senso della realtà, lo capirebbe.

E infatti in Premier sembrano averlo capito. I tifosi, che così ardentemente hanno difeso il concetto di campionato nazionale e di merito sportivo, hanno allo stesso tempo preso coscienza del loro potere. Del fatto che, sebbene loro non ci mettano i soldi come gli sponsor, sono pur sempre investitori. Investitori non di denaro, ma di emozioni. E in un mercato che basa buona parte del suo successo proprio sulle emozioni, il potere del tifo non può essere messo in secondo piano.

Senza di loro, senza il loro tifo, i loro riti, i loro cori, non esiste il calcio come lo conosciamo.

La Premier che è composta da persone intelligenti e non a caso è da anni il campionato più seguito al mondo, ha capito che il tifo, soprattutto quello nella sua espressione più popolare, fa parte del pacchetto. Vendi in Sudafrica e Cina per le esultanze “tiktokabili” di Cristiano Ronaldo, ma anche per tutto il contorno. Per il tifo, per i cori, per il “movente” che ti spinge a tifare Liverpool invece di Arsenal. Che ti spinge a rinunciare all’uscita del sabato sera con la tua fidanzata petulante per seguire undici omaccioni in pantaloncini.

Il brand “calcio inglese” non può prescindere dai suoi tifosi, dal modo particolare di vivere la partita, dalla vicinanza al campo, dal pub post partita, dal boxing day e da tante altre cose. Non a caso l’altro campionato che, in controtendenza rispetto alla media, sembra godere di ottima salute è la Bundesliga. Ad oggi un vero e proprio eden per i tifosi di calcio. Un campionato dove da anni si è puntato, anche dal punto di vista societario, alla centralità del tifoso. Tifoso in quanto tifoso, eh. Non tifoso in quanto mero utilizzatore di ticket o compratore di merchandising.

Gli inglesi, bravi ad innovare, ma altrettanto bravi a prendere spunto, lo hanno capito e hanno deciso di “copiare” uno dei motivi di successo del campionato tedesco: le standing zone.

In pratica luoghi dove il tifo è “libero” di esprimersi: con cori, in piedi, con bandiere. Che è cosa ben diversa dalle strumentalizzazioni pretestuose di chi equipara questi settori a zone franche al limite del paralegale. E poi magari non ha mai messo piede in uno stadio se non in tribuna VIP invitato da qualche sponsor milionario.

Dall’anno prossimo infatti ben quattro club di Premier più uno di Championship, avranno nel loro stadio questa standing zone: Chelsea, Manchester City, Manchester United e Tottenham e Cardiff City. Con l’intento palese di allargare presto la sperimentazione anche ad altri impianti in giro per l’Inghilterra.

Una scelta che prende di petto la presunta disaffezione nei confronti del calcio. Di fronte ad un’età media che si alza e a prezzi diventati impopolari, i club d’oltremanica fanno l’unica cosa sensata da fare: cercano di riportare il calcio nella sua dimensione sportivo-sociale. Non una semplice rappresentazione di gesti tecnici e atletici, ma un momento di aggregazione e di condivisione. Un qualcosa che può spingere anche il ragazzo squattrinato a rinunciare alla pizza con gli amici per mettere da parte le poche sterline e vivere lo stadio.

In parole povere ciò che ha significato il calcio per 150 anni. Il motivo principale per cui il calcio è diventato l’unica religione davvero universale. Da Londra a Città del Capo.

Un monito anche per il nostro movimento “pallonaro” che invece, come il classico chirurgo improvvisato che vuole curare una gamba rotta a martellate, continua a viaggiare verso il precipizio. Il calcio non piace più come prima, è oggettivo. Ma si continuano a portare avanti le stesse “riforme” che hanno causato la disaffezione nei confronti del calcio.

Il subordinare la competizione allo “spettacolo”, come se uno 0-0 non fosse anch’esso un qualcosa di spettacolare a modo suo; il sacrificare tempi, riti e routine consolidate da decenni sull’altare di uno spezzatino orario; il prediligere sempre più lo stadio virtuale rispetto a quello reale. Il prendere l’ultimo baluardo di collettivo e di meritocrazia esistente ad oggi nel mondo occidentale e farlo diventare l’ennesima sfilata, di fronte ad una platea estremamente elitaria, di rendite di posizione spacciate per merito. Il resto, la plebe, può accontentarsi di un surrogato virtuale che, con freddo distacco, gli viene trasmesso con buffering e ritardi.

Prendere il fùtbol insomma, quello di Maradona, Zico, Cruijff, e trasformalo in soccer, quello dei regolamenti d’uso orwelliani, dei tre abbonamenti alla pay-tv, del divieto di condivisione del dispositivo, ecc… ecc… ecc…

Fa riflettere, ma non stupisce, che coloro che per primi scoprirono le potenzialità del calcio virtuale, gli inglesi, siano anche i primi ad aver capito che senza il cuore del calcio, i tifosi, non si va da nessuna parte. Da noi invece si continua a guardare al milioncino in più di diritti televisivi, con la presunzione di essere quelli furbi, quelli intelligenti, quelli che hanno capito che in uno stadio teatro puoi far venire gli alto-spendenti a cui nemmeno interessa andare oltre il selfie da postare su Instagram per il big match. Ma che importa: ti comprano l’hot dog vegan a 10€.

Poi i like alla terza foto diminuiscono, la moda dell’hot dog vegan passa e quindi si cambia setting fotografico. Ed è in quel momento, quando potrebbe essere troppo tardi, che ti accorgi che forse forse era meglio tenerselo stretto quel gruppetto di ragazzi che vengono con la frittata di maccheroni, ma che vengono con pioggia e sole, con Juve o con Albinoleffe, e a cui importa poco del risultato, perché l’importante è il contorno, è il momento, è il significato, è l’appartenenza ad un microcosmo in cui l’”io” del consumatore, in una società in cui il valore sociale è concesso solo a chi spende e indirizza la spesa, lascia, come un’ultima oasi nel deserto, finalmente il posto al “noi”. Il “noi” che per 150 anni ha fatto funzionare il calcio. E non solo il calcio…

A cura di Giancarlo Di Stadio

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