“Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare”, il calcio italiano dovrebbe ispirarsi a queste meravigliose parole in versi di Martha Medeiros.
Il pallone ha intrapreso il triste sentiero della morte a piccole dosi, minando due aspetti basilari per lo sport e di conseguenza anche per l’industria che esso rappresenta: la credibilità e la passione dei tifosi costantemente mortificata.
Il calcio è la terza industria del Paese, genera 700 milioni di euro d’introiti per l’erario, va salvaguardato dalla demagogia di coloro che inorridiscono all’idea che in un momento d’emergenza ci possano essere delle norme speciali che consentano al pallone di rotolare. Ribadire che il calcio non è una priorità (affermazione banale e ovvia) significa affermare parole vuote, tuffarsi nel populismo anche perché il focus serio su scuola e sanità non conviene affatto alle istituzioni.
Per presentarsi dagli interlocutori come un’industria, serve, però, anche compattezza, la risorsa che ha permesso a tutte le squadre d’andare avanti dopo il lockdown completando la stagione.
Il contesto era diverso, i numeri del contagio molto più bassi, in Italia e ancora di più negli altri paesi europei è tornato uno scenario a cui guardare con il giusto livello di preoccupazione. Il cambiamento va governato, durante una pandemia bisogna saper leggere in anticipo le situazioni, basta ricordare il disastro della scorsa primavera quando il Covid-19 ha colpito a sorpresa generando una tragedia soprattutto in Lombardia. Il calcio invece ha coperto come la polvere sotto il tappeto i diversi punti di vista che già covavano, è andato avanti come una locomotiva e anche dopo il caso Genoa ha approvato un regolamento in fretta e furia in Consiglio di Lega, un organismo in cui neanche tutti i club sono rappresentati.
Questo percorso porta a Juventus-Napoli, il punto più basso dell’immagine della storia del calcio italiano dopo Calciopoli. In questa storia non ci saranno né vincitori né vinti ma partiamo da un presupposto: il Napoli a Torino non poteva andare, rischiava sanzioni penali, la causa di forza maggiore è evidente.
L’attacco, infatti, si è spostato sul rispetto del protocollo con un’indagine federale in corso. Il punto è un altro: ma che immagine ha dato la Juventus, un top club leader nel contesto dell’Eca, comunicando sui social i convocati, la formazione e comportandosi come se non fosse successo nulla?
La Juventus dovrebbe spingere per giocare le partite, non per vincerle a tavolino. Se il punto di riferimento del club bianconero consiste negli “invasati” dello slogan vincere è l’unica cosa che conta, va bene così, neanche il caso Suarez può disturbare il governatore. Andrea Agnelli ha più volte ribadito di avere una visione internazionale, di far uscire il calcio italiano dal provincialismo in cui è immerso ma se la Juventus guarda al mondo, nel weekend ha portato a casa un’altra brutta figura.
L’hanno fatto anche la Figc, la Lega e lo stesso Governo che non ha avuto l’autorevolezza politica di spingere le parti alla soluzione condivisa del rinvio prendendo atto che la strada del protocollo intrapresa a giugno va assolutamente rivista.
Non vince neanche De Laurentiis che sin dal ritiro di Castel di Sangro si è posto in una posizione di scontro con la locomotiva del calcio italiano. Questo mondo ha bisogno di convivere con il virus come tutte le altre attività e di non schiantarsi nel vortice della pandemia perché tutti guardano prima agli interessi di bottega e poi alla visione d’insieme.
Così si muore lentamente, basta stare nel paese reale per capire che la passione del calcio si sta trasformando, appassisce come le piante non innaffiate anche perché la pandemia ha fatto esplodere le contraddizioni di un mondo che nell’ultimo ventennio ha accumulato debiti, attraversato scandali e si è proposto in modo sempre più distante dai tifosi.
Tutti hanno capito che lo stadio virtuale è un fallimento, bastano 1000 tifosi sugli spalti a rendere lo spettacolo meno triste rispetto al silenzio. La tv anche ha bisogno dello stadio reale, delle emozioni che genera, della passione che lo rende vivo, intenso. Non è ancora il momento purtroppo di affollare di nuovo gli stadi ma bisogna preparare la rinascita di questo mondo con la compattezza. Prima degli interessi di bottega, c’è la sopravvivenza della locomotiva e in tutta Europa solo in Italia si è già inceppata. Vuol dire che c’è qualcosa non va e bisogna intervenire prima che sia troppo tardi, sempre nell’ovvia e prioritaria consapevolezza che la tutela della salute viene prima di tutto.
Ciro Troise
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