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L’Italia deve evitare l’assuefazione al Mondiale perso

L’Europeo appartiene al passato, non bisogna arrendersi all’idea di essere fuori dal Mondiale

L’Italia è fuori dal Mondiale, non c’è più neanche la rabbia di novembre 2017. Nessuno grida al fallimento, chiede di andar via come avvenne ai tempi di Tavecchio e Ventura in un clima di forte indignazione popolare. I momenti sono differenti, questa Nazionale otto mesi fa vinceva l’Europeo grazie ad un’idea di gioco che raggiunse nella notte di Wembley il picco massimo in termini di compattezza del gruppo, capacità d’andare oltre i propri limiti e anche un po’ di fortuna.

Non è stato casuale, Mancini ha ribaltato il fallimento con un percorso che ha reso la Nazionale in certi periodi addirittura un’oasi felice rispetto ai club. Basta ricordare la frase di Bernardeschi sul “rischiare la giocata”.

È finito tutto a Wembley, la condizione dei singoli, il lento trascinarsi di risultati mediocri, la mancanza della spinta che ha costruito il mese magico in estate, da settembre non c’è più niente o al massimo soltanto a tratti. Basta ricordare i pareggi contro Bulgaria, Svizzera, Irlanda del Nord e la sconfitta contro la Macedonia del Nord. L’Italia da alcuni mesi fa fatica a far gol ed è stato fatto poco o meglio nulla per affrontare questa problematica prima che diventasse penalizzante. Sembrava quasi che ci fosse la convinzione per cui prima o poi i campioni d’Europa ce l’avrebbero fatta a portarci al Mondiale.

Belotti in panchina e magari in campo nella ripresa poteva dare qualche soluzione in più? Cambiare sistema di gioco anche a gara in corso coltivando l’alternativa dell’attacco a due punte poteva essere utile per allargare la manovra e ricercare i cross con maggiore velocità di pensiero ed esecuzione? Vorremmo risposte a queste domande prima di perdersi nell’ovvio della crisi di sistema, una malattia che colpisce il calcio italiano da una ventina d’anni. Non è un caso che nessun club italiano vinca una coppa europea dal 2010, dai tempi del trionfo dell’Inter di Mourinho.

La riconoscenza per l’Europeo non vale il Mondiale perso

La riconoscenza per Mancini è un sentimento apprezzabile ma non si può mettere la polvere sotto al tappeto o addirittura accettare il danno della mancata qualificazione al Mondiale. Un disastro economico, tecnico e soprattutto un attacco alla passione che si coltiva proprio durante l’infanzia e l’adolescenza. Questo è l’aspetto più grave perché i nostri presidenti si parlano addosso alla ricerca di soluzioni per far appassionare al calcio le giovani generazioni e non c’è nulla meglio dei riti del Mondiale con l’Italia per incantare bambini e ragazzini.

Se tutto va bene, i “millennials” vedranno l’Italia al Mondiale nel 2026, dodici anni dopo l’ultima volta, quell’avventura nel 2014 in Brasile finita ai gironi dopo le sconfitte contro Costa Rica e Uruguay.

La domanda da farsi è se Mancini sarà in grado di fare un’altra sterzata, rilanciare l’Italia con un nuovo progetto tecnico. Il sistema dovrebbe fare tante cose: riformare i campionati, spezzare la mediocrità in C e D con le regole di minutaggio e under, imporre una regola per cui il 15% del fatturato debba essere destinato al settore giovanile, spingere in maniera determinante per la costruzione di nuovi stadi. Il diritto europeo impedisce limitazioni agli stranieri, il sistema può solo incentivare la cura dei vivai e la formazione degli italiani.

L’Italia deve ripartire da ciò che ha in casa

Il cambiamento passerebbe per i presidenti, l’epicentro del disastro del calcio italiano, perciò è inevitabile essere perplessi. Cosa ci si può aspettare da quelli che sanno solo litigare in Lega, imprenditori aggrappati ai diritti televisivi, che hanno respinto il fondo Cvc, su cui stanno impostando la crescita la Liga e la Ligue 1?

Vedremo cosa accadrà ma nel frattempo l’Italia deve ripartire da ciò che ha in casa, senza illudersi che il sistema si trasformi. Bisogna ribellarsi all’assuefazione, alla mediocrità con la consapevolezza che Mancini non ha lasciato a casa nessun fenomeno in grado di cambiare il nostro destino.

Guardando un po’ in più prospettiva, qualcosa di buono c’è. Da Carnesecchi a Fagioli, da Udogie a Gaetano, da Okoli a Cancellieri, da Savona a Miretti, da Bove a Casadei, questo patrimonio non va perso, bisogna valorizzarlo. Il sistema fa fatica in tante fasi del processo: si gioca poco per strada, si lavora spesso male e poco sulla formazione tecnica sia nelle scuole calcio che nei settori giovanili e poi non c’è la giusta cura da parte dei club nel percorso dei giovani.

Ci vuole tempo e volontà politica per trasformare quest’inerzia, Mancini ha la forza di andare ancora per la sua strada sapendo che il calcio italiano non cambierà in un attimo? Se sì, vada avanti altrimenti abbia il coraggio di farsi da parte perché bisogna dribblare da parte di tutti il rischio dell’assuefazione al fallimento.

Ciro Troise

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