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L’Inter cambia nome? Forse no, ma già altre volte il “mercato” ha prevalso su storia e tradizione

La notizia, forse rientrata, del cambio nome ha scatenato le polemiche dei tifosi. E non è la prima volta che, per logiche di mercato, si cambia storia e tradizione

Vi ricordate quando in piena epoca d’oro della PS2 si correva dal “bancarellaro” di fiducia a comprare il nuovo Pes/Winning Eleven? Quando, tra quelli con il Napoli in C e con il Cervia di Moschino e Giuffrida, ti capitava la versione inglese? Semmai, tra una Master League con il trio delle meraviglie Ordaz-Minanda-Castolo e le prime divinità invocate dopo la sconfitta con il vostro amico a casa, vi foste imbattuti, con la versione inglese, nell’Inter ricorderete che non era chiamata Inter, ma Inter Milan.

Tale denominazione non era frutto della fantasia degli sviluppatori o della mancanza di diritti, come con i celebri Man Red, London Blue o, per avvicinarci agli ultimi giochi, il celebre Piemonte Calcio del concorrente Fifa. No, Inter Milan è davvero la denominazione dell’Internazionale FC in uso nei paesi anglofoni.

Perchè questo excursus nostalgico? Perchè, notizia di stamattina (che pare essere stato un falso allarme) l’Inter potrebbe cambiare la sua denominazione ufficiale da FC Internazionale a Inter Milan.

Sembrerebbe infatti che la proprietà nerazzurra, la quale, dopo la stretta del governo cinese, potrebbe passare la mano ad un’azienda inglese di private equity, la BC Partners, starebbe pensando di cambiare nome. Insomma l’Inter starebbe, per l’ennesima volta negli ultimi anni, per passare di mano e la nuova proprietà (o i nuovi soci se Suning dovesse vendere solo quote di minoranza) vorrebbe un restyling del brand. A cominciare dal logo, che dovrebbe essere più minimal (non che adesso sia questo guazzabuglio di font e colori) e dal nome, che dovrebbe richiamare maggiormente il legame con Milano. Ecco che l’ipotesi “Inter Milan” ha iniziato a circolare.

Non è la prima volta che nel calcio succede. E non è la prima volta che i tifosi la prendono non certo nel migliore dei modi.

In passato i cambi di denominazione solitamente erano legati a ragioni politiche più che di immagine. La Spagna, con l’avvento della dittatura di Franco, l’Athletic Bilbao dovette mutare il nome, troppo anglofono, in Atletico di Bilbao, oltre a cancellare qualsiasi riferimento alla bandiera basca in maglie e striscioni. Simile sorte toccò al Barcellona con la bandiera catalana.

Nello stesso periodo proprio l’Inter in Italia vide il suo nome mutuare in Ambrosiana. Troppo “comunista”, vista l’associazione con la Terza Internazionale, quel nome per i gerarchi fascisti che, proprio in quegli anni, vedevano nel calcio un fondamentale strumento per costruire l’identità italiana in un paese ancora fortemente campanilistico.

Anche il Napoli, seppur marginalmente, fu colpito da questa fascistizzazione del calcio. Lo stadio Ascarelli, primo impianto di proprietà in Italia, fu rinominato Partenopeo. Troppo scomodo, per un regime che aveva appena varato le leggi razziali, avere, nella terza città del paese e nel “porto dell’Impero”, il principale campo sportivo intitolato ad un ebreo.

Certo, ora potremmo stilare una lunga lista di cambi di denominazione che hanno colpito più o meno tutti i paesi. Ad esempio il Karl-Marx-Stadt, che affrontò anche la Juve in Coppa UEFA, rinominato, dopo la caduta del Muro di Berlino, Chenmitzer FC, oppure il Palestra Italia diventato Palmeiras dopo che, nel ‘42 il Brasile dichiarò guerra all’Italia.

Anche recentemente il Partito Comunista Cinese ha imposto una stretta sui nomi della squadre del campionato nazionale. Troppo legate agli sponsor e alla proprietà. Ecco l’imposizione dall’alto di cambiare nome con denominazioni più legate al calcio.

Qualcuno potrebbe supporre che tale pratica sia stata e sia tutt’ora comune solo ai paesi “dittatoriali”. Invece purtroppo, come dimostra l’Inter, anche l’occidente democratico non è esente. Da noi c’è una dittatura meno aggressiva, ma non per questo meno totalizzante: la dittatura del mercato.

La scelta dell’Inter è dettata, anche se non sembra, da una grandissima pressione esterna: appunto quella del mercato. Della necessità di trovare nuovi segmenti di “tifosi”. Non tifosi-tifosi, ma tifosi-consumatori. La squadre, nell’occidente totalmente piegato alla globalizzazione e al neoliberismo, ormai non sono compagini sportive, ma semplici brand. E un brand non ha come scopo finale la partecipazione e la vittoria di un trofeo, ma la vendita di se stesso, l’aumento dei ricavi e la felicità degli azionisti. Il resto è puro contorno.

Sono le logiche di mercato, le stesse che stanno ormai svuotando di competizione il calcio e lo stanno riempiendo solo di vuoto spettacolo. Un qualcosa che si avvia ad essere più simile, nella migliore delle ipotesi all’NBA, nella peggiore alla WWE. Che spinge dirigenti e pseudo-guru del marketing a cancellare storia, identità e passione in nome di asettiche ricerche di mercato.

Qualche anno fa il Cardiff cambiò stemma e colori sociali. Dal BlueBird al dragone rosso. Il motivo? Le ricerche di mercato avevano rivelato che il Cardiff era percepito all’estero come una sorta di squadra simbolo del Galles. Quali sono i colori e i simboli del Galles? Ecco che la proprietà pensò bene di cambiare un secolo di storia in nome del “mercato”.

I risultati furono al limite del tragicomico, con boicottaggi e vere e proprie shitstorm sui social che costrinsero la proprietà a cambiare totalmente strada, con un’inversione ad U che portò il ritorno del BlueBird e delle maglie blu. Con un piccolo compromesso: il tanto amato dragone gallese ora campeggia nascosto piccolo piccolo in basso allo stemma.

L’Inghilterra, in quanto nazione europea più influenzabile dalle mode e dalle ideologie nate oltreoceano, è stata la pioniera di questi cambi di denominazione/colore in base al “mercato”. Ma, essendo sempre un paese europeo in cui lo sport per secoli è stato sport e non spettacolo, è stata anche pioniera della lotta dei tifosi contro tali derive.

Ne sa qualcosa Pete Winkelman che nel 2003 ebbe la geniale idea di prendere una squadra e spostarla di 100 km. D’altronde il trasferimento di franchigie è la norma negli USA, perché non farlo anche in Europa?

Winkelman aveva investito parecchi soldi nella costruzione del nuovo stadio a Milton Keynes. Ora serviva solo una squadra che ci giocasse. Così diventò socio del Wimbledon, all’epoca in Championship, e lo trasferì a Milton Keynes. Non contento cambiò nome e colori sociali del club. I tifosi non la presero bene. Partì un boicottaggio da parte di tutte le tifoserie d’Inghilterra e il MK Dons, questa la nuova denominazione, visti crollare gli incassi, sfiorò il fallimento e retrocesse mestamente in League One.

Winkelman comunque non tornò sui suoi passi, anzi comprò in saldo tutto il club ormai sull’orlo del fallimento. Il club restò a Milton Keynes e i tifosi del Wimbledon dovettero fondare un nuovo club che, scherzo del destino, dopo una scalata durata circa un decennio adesso milita nella stessa serie del MK Dons.

Sempre colpa del mercato, ma stavolta in senso opposto, quasi positivo. Negli USA negli ultimi anni si sta assistendo ad un rebranding delle squadre della MSL. Il motivo però è esattamente il contrario di quello che spinge i club europei al cambio nome. Negli USA infatti le franchigie stanno da anni cercando di cambiare i loro nomi con nomi più “europei” o in linea con il calcio europeo. Il perché è semplice: perché i tifosi vogliono fare i tifosi di calcio e non i consumatori di un prodotto.

Storicamente negli USA accanto al nome della città/stato c’è un nome di fantasia legato a qualcosa del luogo (Portland Timbers, New England Revolution). Molte franchigie però stanno abbandonando questo tipo di denominazione in favore di nomi più legati al calcio in senso stretto: così i Montreal Impact sono diventati FC Montreal, i Kansas City Wizards lo Sporting KC e i Dallas Burn l’FC Dallas.

Sempre dagli Stati Uniti c’è poi un’altra motivazione che ultimamente sta prendendo piede oltreoceano. Nel paese che ha dato i natali alla woke culture e nel quale schiere di social justice warrior hanno giornate così piene da passarle su Twitter a promuovere la cancel culture, anche i nomi della squadre non sono al sicuro.

Sotto la scure del politicamente corretto sono infatti finiti Washinghton RedSkins. La loro colpa? Avere un nome poco rispettoso nei confronti dei nativi americani. Motivazione simile che spinse gli allora Bullets, sempre di Washinghton, a cambiare nome in Wizards perché poco rispettosi nei confronti di coloro che erano morti a causa dei “proiettili” delle armi da fuoco.

A cura di Giancarlo Di Stadio

 

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