Il campionato di serie A non conosceva la parola sospensione dalle due guerre mondiali, la Uefa è nata nel 1954 e non ha fermato mai le coppe europee, neanche per l’Heysel o per l’attentato dell’11 settembre 2001, stavolta ha dovuto dire stop perché si tratta di una situazione senza precedenti, una pandemia globale da cui nessuno può sentirsi al riparo. Il post di Bernardeschi di qualche settimana fa sul razzismo e sulla sofferenza dei più poveri quando chiedono aiuto, l’opera di solidarietà di Insigne e Bonucci e anche la campagna comunicativa sui social di tanti calciatori rende l’idea del fatto che anche il calcio, che storicamente si considera una comunità isolata, è dentro la vita di tutti. Sembra la livella di Totò, non valgono distinzioni di censo, l’agiatezza economica non fornisce ostacoli al virus, non mette al riparo. L’auspicio è che il calcio porti a casa una lezione da questa storia, si renda conto che anche la sua anima economica, commerciale può svilupparsi se il contesto sociale va avanti nel modo giusto. Il mio sogno è che il mondo del pallone sfrutti la sua potenza mediatica anche quando l’emergenza sarà finita, partecipi ad una rivoluzione culturale che deve riguardare tutti. Il Covid-19 con la sua forza ci ha insegnato che la “res publica” ci riguarda, che l’idea per cui ognuno nella sua individualità possa trascorrere la sua vita nel suo segmento economico e sociale è fragile. Facciamo tutti parte di una comunità, dal medico in trincea a combattere questa guerra moderna al calciatore che si rende conto della situazione e decide di sostenere gli ospedali. In questi giorni tutti si stanno rendendo conto del valore della sanità pubblica, del diritto alle cure per tutti, della necessità che in un paese civile i posti letto in terapia intensiva siano sufficienti (5300 su 60 milioni di cittadini quando è iniziata l’emergenza), del ruolo fondamentale dell’istruzione pubblica, di quanto sia fallace l’idea per cui il mercato possa regolarsi da solo senza l’intervento dello Stato. Il calcio non può sostituirsi alla politica, non vediamo l’ora di tornare alla leggerezza del pallone, ad emozionarci per una giocata, a raccontare le storie di vita che esprime questo mondo ma non deve dimenticare che non vive su Marte ma soffre, come tutte le altre attività, di ciò che accade nel mondo. Lo decideranno i medici quando si ripartirà, nessuno può saperlo, si possono coltivare speranze, valutazioni che, però, poi vanno aggiornate in relazione all’emergenza sanitaria che affligge l’Italia. Si continui sulla strada che in maniera tardiva e faticosa è stata tracciata, con decisioni condivise tra i campionati nazionali e l’organizzazione delle coppe europee per fare in modo che il giorno in cui si ripartirà sia di grande festa. La priorità è provare a portare a termine i campionati e le coppe ma le scelte non dipendono dal mondo del calcio. La sensazione di non essere padroni della propria vita mette in ansia l’economia e anche il calcio, che rappresenta un settore strategico fondamentale per il sistema Paese, ma il mondo del pallone deve acquisirla come lezione, così potrà diventare più umano e avere anche una visione più efficace in termini di crescita. Il calcio scenda dal piedistallo e sia più umano: sarà meglio per tutti, soprattutto per il pallone quando tornerà a rotolare.
Ciro Troise
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