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Corea del Nord e “diplomazia del pallone”: tra Cari Leader, Razzi e l’erede del “dentista” che eliminò l’Italia

Un paese in perenne stato di guerra e un movimento calcistico che vuole essere "normale"

Correva l’anno 1966: la Guerra del Vietnam entrava nel vivo, l’Unione Sovietica faceva atterrare sulla luna il primo oggetto meccanizzato (la sonda Luna 9) e l’Inghilterra trionfava nel mondiale casalingo. Proprio quel Mondiale passerà alla storia del calcio italiano per una delle sconfitte più inattese: lo 0-1 contro la Corea del Nord. Partiti come sempre con grandi ambizioni, soprattutto dopo la controversa eliminazione contro il Cile nella celebre “battaglia di Santiago” dell’edizione precedente, l’Italia era vista dagli addetti ai lavori come una delle favorite. Gli azzurri però riuscirono nella poco edificante impresa di rimandare la qualificazione ai quarti all’ultimo match del girone: proprio contro la Corea del Nord.

A vincere e a qualificarsi furono incredibilmente i coreani, grazie alla rete di Pak Doo-Ik, rimandando gli azzurri a casa. Una beffa clamorosa che colpì il mondo calcistico tricolore tanto da essere usata ancora oggi come termine di paragone quando si parla di debacle inaspettate da parte della nazionale (vedi la sconfitta contro l’altra Corea nel 2002). E tra un’accusa e l’altra, tra un rimpallarsi di responsabilità, si diffuse anche la leggenda che Pak Doo-Ik fosse un dentista. Battuti da un dentista! In realtà, sebbene l’eroe coreano avesse un’abilitazione per fare il dentista, egli non esercitò mai la professione, essendo in realtà un professore di educazione fisica.

Da quel 1966 il mondo è cambiato… quasi per tutti. Infatti, proprio la Corea del Nord, il paese che ebbe in quel giugno del ‘66 il proprio momento di gloria sportiva, sembra essere “ferma” ad allora. Bloccata in una perenne “guerra fredda”, col vicino filo-occidentale del Sud, con il Giappone, con gli Stati Uniti e con mezzo mondo. Un paese che è rimasto in un limbo, in cui sembrano essere ancora vive le logiche che per mezzo secolo contrapposero due modelli di mondo con i rispettivi pregi e difetti, quello liberal-capitalista occidentale e quello comunista orientale. Una contrapposizione, militare ed ideologica, che sulla linea del 38° parallelo (il confine tra le due Coree) continua tutt’ora, con un reciproco “mostrarsi i muscoli”.

Una situazione in continua escalation nella penisola coreana. La Corea del Nord è il paese più enigmatico al mondo. Impenetrabile, dipinto come una prigione a cielo aperto, anche se in realtà nessuno sa bene quanto le poche informazioni che trapelano all’estero siano veritiere. Un paese in perenne stato di guerra, militarizzato fino all’inverosimile, le cui minacce sono sempre in bilico tra il tragico e il grottesco. E attorno ad esso leggende metropolitane che fioriscono (come la storia del dissidente ucciso dalla contraerea, notizia poi rivelatasi infondata) e improbabili politici (soprattutto nostrani!) che si ergono, incuranti della loro mediocrità, come “mediatori” autorevoli. Tutto attorno al “Caro Leader” Kim Jong-Un, descritto dall’informazione mainstream come un pazzo pronto ad atomizzare il pianeta, ma che in realtà potrebbe essere molto più machiavellico del previsto, nascondendo, dietro le minacce a mezzo mondo, una certa razionalità e una certa logica riguardo le sue scelte.

C’è però una parte di Corea che, soprattutto negli ultimi anni, cerca di diventare “normale”: quella dello sport. Anche se “normale” quando si parla di Corea del Nord è sempre un concetto relativo. Chiedetelo ad esempio a Dennis Rodman, l’ex cestista dei Bulls di Micheal Jordan, che è riuscito a diventare intimo amico del Caro Leader. Tutto grazie al basket. Dove non arriva la minaccia delle armi, arriva la palla a spicchi. Così Rodman è riuscito a fare ciò che diplomatici di mezzo mondo non sono mai riusciti a fare: parlare faccia a faccia con Kim. Con anche buoni risultati: chi sa se Trump, in questi giorni di escalation, non possa farci un pensiero. Siamo certi che il buon Rodman riuscirà, per il bene del mondo, a trovare il tempo di dare una mano al Presidente.

Lo sport dicevamo, si perché anche la nazionale calcistica coreana in questi anni sta crescendo. Dimenticate il ‘66, la Corea al mondiale c’è tornata nel 2010. E oltre a questo anche due partecipazioni alla Coppa d’Asia, il successo con l’Under-23 alla Millennium Cup, e il trionfo, per ben due volte, alla AFC Challenge Cup (una competizione dedicata alle nazionali asiatiche emergenti). E così non c’è nemmeno più bisogno di ricordare “il dentista”, perché da qui a qualche anno i coreani del nord potrebbero avere un nuovo idolo calcistico. Un idolo che gioca in Italia, al Perugia esattamente, in prestito dal Cagliari. Han Kwang Son, attaccante classe ‘98, che in questo inizio di stagione sta letteralmente facendo sfracelli in Umbria dopo aver anche segnato in Serie A lo scorso anno.

Han Kwang Son durante il match di Coppa Italia tra Perugia e Benevento

 

Il ragazzo prodigio del calcio coreano, punta di diamante di un movimento che, al di là dei torni propagandistici del Caro Leader, vuole dire la sua nei prossimi anni sul panorama calcistico mondiale. Cresciuto in patria, ma mandato quasi subito a maturare in Europa, Han Kwang Son ha dovuto anche superare una certa diffidenza circa la sua origine, venendo da molti bollato troppo presto come semplice scommessa esotica, quelle di gauccciana memoria, destinate a portare più curiosità che punti in campionato. Ma che invece sta dimostrando che a calcio ci sa giocare.

Un ragazzo che forse ha “una missione” anche più importante di quella di fare gol: aprire il mondo alla Corea del Nord e la Corea del Nord al mondo. Perchè laddove le minacce delle bombe americane continuano a fallire, potrebbe essere “il pallone” ad aprire spiragli di dialogo. E se certamente non basterà una partita per allentare la tensione in quella parte di mondo, di certo Han Kwang Son potrà aiutare il suo popolo ad essere visto con occhi meno pregiudizievoli dal mondo occidentale.

Servizio a cura di Giancarlo Di Stadio

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