Lunga ed interessante intervista concessa da Carlo Ancelotti ai microfoni del Corriere della Sera. Ecco l’intervista completa:
Carlo Ancelotti è un uomo risolto. Pacificato. Non ha niente da dimostrare, meriti da rivendicare, dogmi da difendere («Mica c’è un calcio solo, non esiste l’Università del calcio»), rimostranze da far valere. La ragione potrebbe essere in tutte quelle foto che tappezzano il suo ufficio («Non le ho messe io, eh, non sono così megalomane, è stata una gentilezza del presidente De Laurentiis») che ricordano le vittorie ottenute in tutte le più grandi squadre d’Europa. Ma il sospetto è che la ragione sia un po’ più profonda. Gli esempi di vita («Mio padre e Liedholm, su tutti») e un po’ di genetica. Sta bene con se stesso. Sta bene a Napoli, che sia quella esclusiva dove ha preso casa e da dove ammira il golfo, che sia la terra «con 15mila irregolari» di Castel Volturno, che osserva con curiosità e un po’ d’ironia.
Ancelotti, lei è tornato a vivere in Italia dopo tanti anni. Che Paese ha ritrovato?
«Intanto l’Italia è bellissima, dal punto di vista paesaggistico è il Paese più bello del mondo. Adesso ho avuto la possibilità di visitarla un po’ di più, mi sto riabituando a tanta bellezza. Poi in questo periodo di difficoltà c’è chi vive meglio e chi vive peggio ed un po’ più arrabbiato. Sentivo un discorso di Farinetti, tempo fa: ha detto che noi italiani abbiamo la fortuna di essere nati in Italia. Concordo, dovremmo ricordarcelo».
Veniamo al calcio: lei è tornato in un momento di lungo dominio della Juve. Può diventare un problema per il movimento?
«Direi di no. Il dominio Juve non abbassa la passione degli altri tifosi per la propria squadra, anzi vogliono rompere questa egemonia».
Abbiamo sperato nel poker di squadre italiane avanti in Champions e abbiamo parlato di rinascita del calcio italiano. Sbagliavamo?
«Passare il turno dipende anche dalla difficoltà del girone, ma i segnali di ripresa ci sono: in campionato c’è una buona qualità di gioco, non eccezionale, ma buona; la Nazionale sta facendo molto meglio, il nuovo corso ha inserito giovani interessanti; c’è più stabilità a livello di Federazione, c’è un nuovo presidente con idee chiare. Il movimento è destinato a crescere. Certo, se ci fosse un incentivo a fare stadi nuovi e a migliorare la cultura dentro gli stadi…».
Lei il suo contributo ha provato a darlo, con la battaglia contro i cori razzisti.
«Qualche passo è stato fatto, perché la Federazione si è esposta. Si era tutti un po’ preoccupati a Bergamo e invece mi sembra che la gente abbia capito. Ci sono due modi per convincere le persone: una è la persuasione e l’altra è la percussione…»
Questa è di Sacchi.
«Sì!».
Ed è anche una buona chiave di lettura del suo modo di essere allenatore.
«Io sono per la persuasione sì, ma non rinuncerei per principio alla percussione. Il cavallo salta l’ostacolo sia con la carota che con la frusta. Il problema è dopo: se ti capita di passargli dietro, magari si ricorda che hai usato la frusta… È un po’ la differenza tra l’autorevolezza e l’autorità. Io ho sempre avuto attorno persone molto pacate, pazienti, penso a mio padre o a Liedholm, il mio carattere nasce da lì. Non posso essere autoritario se non sono capace, nei rapporti devi essere credibile».
Capello ha ripetuto che la serie A non è allenante, condivide?
«Dal punto di vista tattico, lo è molto. Credo che i successi che gli allenatori italiani hanno avuto all’estero derivino dal fatto che in Italia ti abitui a curare ogni minimo dettaglio. Per esempio, noi abbiamo appena affrontato Cagliari e Spal: giocano in modo completamente diverso. Proprio per questo tatticismo, però, i ritmi del gioco sono più bassi e quindi da un punto di vista fisico è meno allenante».
Se lei avesse tempo, quale allenatore andrebbe a studiare?
«Uno che conosco poco, potrebbe essere Klopp o Pochettino, perché Allegri, Simeone, Spalletti, Guardiola so già come lavorano. Ormai ci sono pochi segreti nel calcio, però è sempre interessante vedere come un allenatore si comporta, che impulso dà in un certo esercizio. Non per copiare, che è impossibile, eppure ci sono allenatori che non vogliono far vedere gli allenamenti».
Ci sono anche allenatori che pensano che esista un solo modo di giocare a calcio.
«No, nel calcio non c’è una sola verità. Perché non c’è un’Università del calcio, non è che prendi la laurea».
Sarri però un po’ la sua Università qui l’aveva eretta: i giocatori erano catechizzati.
«C’era una squadra che aveva un’identità ben precisa, noi cerchiamo di averla un po’ più variabile. I campionati li ha vinti chi ha giocato a uomo, chi ha fatto il possesso palla, chi ha fatto il contropiede, chi non faceva ritiro, chi lo faceva…”
Quindi il Napoli non ha pareggiato contro il Chievo perché non ha fatto ritiro…
«No, abbiamo pareggiato contro il Chievo perché abbiamo giocato male».
Come si tiene alta la concentrazione di una squadra che, pur facendo il record di punti, è arrivata seconda?
«Io credo che ognuno di noi deve motivarsi non attraverso il confronto con gli altri, ma con il confronto con se stesso. L’ho detto anche ai giovani del Napoli: se tu hai come obiettivo diventare Messi, beh questo percorso è influenzato dalla genetica. Se il giorno in cui Dio ha dato il talento a Messi non eri lì, puoi fare poco. Invece è il confronto con te stesso che ti motiva: ogni giorno mi alleno per essere migliore. Il concetto si può spostare anche alla squadra: se dico impegniamoci per battere la Juventus diventa un obiettivo troppo lontano».
Lei a Napoli ha trovato un modello di gioco, quello di Sarri, ben definito, quasi una macchina perfetta. Com’è riuscito a inserire le proprie idee?
«In modo graduale, non ho mai cercato di forzare le cose. In genere le novità sono ben accette. Qua c’era una chiara identità di gioco. L’unica cosa cambiata a livello tattico è stata la disposizione in fase difensiva, dal 4-3-3 al 4-4-2, che per me è la più efficace. Abbiamo cambiato dopo la Sampdoria e in un periodo in cui giocava la Nazionale, perciò non c’era neanche modo di provare. Mi è bastato parlare con qualche giocatore, Allan e Diawara, mi hanno dato la loro disponibilità e la abbiamo fatta, altrimenti mi sarei fermato. Tant’è che l’abbiamo provata 20 minuti nell’allenamento prima della Fiorentina e basta».
A proposito: a livello tattico dove sta andando il calcio?
«Sa cosa le dico? Secondo me il progresso è regresso. Per esempio: adesso tutte le squadre cercano di giocare a calcio, anche le piccole, che è buono per la qualità del gioco, ma si perde un po’ di sana combattività, di aggressività, anche di applicazione in fase difensiva. Una volta erano battaglie campali. Altro esempio: tutte le squadre cercano di giocare da dietro, utilizzano il portiere: nel giro di poco tempo cambierà, perché si vedono rischi eccessivi, si tornerà alla vecchia palla lunga. È gioco anche quello, gli inglesi sono andati avanti una vita».
Lei ha definito il Napoli competitivo: ma per cosa?
«Per vincere. L’obiettivo è una squadra che arriva alla fine del campionato lottando».
Direbbe ancora: «Siamo dei coglioni se usciamo dalla Champions»?
«Ma io l’ho detto prima della Stella Rossa: intendevo, saremmo dei coglioni a uscire per un mancato risultato contro la Stella Rossa. Ma noi non siamo usciti da coglioni, abbiamo fatto il massimo e siamo stati in ballo fino all’ultimo contro una squadra veramente forte, il Liverpool, candidata a vincerla la Champions. Come il Psg, il Barcellona e la Juventus, che però ha un ostacolo difficile come l’Atletico Madrid, che nei turni eliminatori ha perso poche volte. Il Real invece è meno competitivo senza Ronaldo».
Mercoledì affrontate l’Inter, l’altra esclusa dalla Champions: sembra che voi abbiate assorbito meglio il colpo.
«Mi sembra che anche l’Inter società l’abbia gestito bene, considerandolo un incidente di percorso. Danno l’impressione di essere una squadra e una società in crescita, ogni anno inseriscono giocatori importanti».
Che rapporto ha con Spalletti?
«È un amico, mi è venuto a trovare a Madrid quando era fermo. Abbiamo un bel rapporto, di stima e di affetto. Ma io ce l’ho un po’ con tutti gli allenatori. E poi ora tanti miei giocatori sono diventati allenatori, Gattuso, Pippo, Nesta, Oddo».
A Gattuso fa qualche seduta telefonica antistress?
«Lui è molto coinvolto, all’inizio è così: hai meno certezze, ti fidi poco degli altri, cerchi di fare tutto tu. Poi capisci che è fondamentale dedicare un po’ di tempo a te stesso. Quando ho iniziato stavo 24 ore al giorno sul pezzo, era il ‘96 e ho detto: nel 2000 smetto. Siamo nel 2018…».
Negli ultimi anni al calcio italiano è mancata Milano.
«Le vicende societarie hanno inciso. Ora sembra che l’Inter si sia sistemata, c’è un progetto chiaro. Il Milan è più in via di definizione: il fondo Elliott in 5 anni cercherà di portare il club ad alto livello e poi arriverà un altro proprietario».
Ma lei è stato davvero vicino a tornare al Milan?
«Due volte. Quando sono andato via dal Real Galliani è venuto a caccia a Madrid, ma dovevo riprendermi da un problema alla cervicale. E poi un’altra volta con Fassone c’è stato un mezzo tentativo, dopo il Bayern».
Cosa la fa arrabbiare in un giocatore?
«Chi non gioca e si allena male mi fa andare fuori di testa. Accetto che uno si arrabbi, non che si alleni male: è egoismo perché fa un danno a tutta la squadra. L’attenzione va spostata sugli altri, non su se stessi. Ho letto che il 90% degli americani tra i 15 e i 21 anni soffre di stress. E il motivo è che c’è un eccesso di egocentrismo. La medicina è una sola: se siete stressati siate più altruisti».
È per questo che lei non è stressato?
«È perché mi piace quello che faccio».
Nel Napoli entrano ed escono un po’ tutti, tranne Koulibaly. È il suo insostituibile?
«Non lo posso negare. È un fuoriclasse, faccio più fatica a fare a meno di lui».
Il turnover è anche una mission aziendale?
«Il turnover motiva più i giocatori e allontana gli infortuni. È chiaro che la società si aspetti che i giocatori siano valorizzati, ma no, De Laurentiis non mi ha chiesto di fare turnover».
A proposito: tre aggettivi su De Laurentiis?
«Schietto, generoso e curioso. Io e lui parliamo pochissimo di calcio. Mi dà le chiavi della squadra, si fida e io gli sono grato».
Cosa chiede Ancelotti a Babbo Natale?
«Non chiedo niente, sono soddisfatto così».
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