La storia insegna che ogni epidemia fa uscire fuori il peggio delle persone. O, se vogliamo metterla cinicamente, il loro vero volto. Manzoni racconta magistralmente l’isteria della popolazione milanese durante quella che forse è stata la più devastante delle molteplici epidemie che hanno colpito il capoluogo lombardo. E le scene di questi giorni, con assalti ai supermercati, fughe dalla quarantena, che addirittura sfociano in comportamenti gravissimi come il rubare le mascherine o truffare poveri ed ignari anziani, non fanno che confermare che il 2020 e il ‘600 non sono poi così diversi.
Ma tutto il mondo è paese. E l’isteria (o lo sciacallaggio se vogliamo continuare ad essere cinici) ben presto si è espansa a macchia d’olio. E i vizi nascosti del Lombardo-Veneto sono diventati i vizi nascosti dell’Italia intera.
Presto anche il calcio ha dovuto fare i conti con il Coronavirus. E con l’isteria che lo sta accompagnando. E presto anche nel calcio, come era accaduto nei consigli regionali di Lombardia e Veneto, sono emerse tutte le contraddizioni e le prese di posizione. Così, sull’altare dell’epidemia si è iniziato a combattere, come nella più classica mentalità comunale tosco-padana, tra opposte fazioni. Regioni e Governo litigano per l’attribuzione di poteri, e nel calcio, la più grande cartina di tornasole del nostro paese, le varie società cominciano a fare la voce grossa per difendere i propri interessi.
Il rischio, al momento remoto (ma non si sa mai…), è che il campionato venga sospeso. E allora che si fa: a chi va lo Scudetto? Chi andrebbe in Champions? Chi retrocederebbe?
Il regolamento parla chiaro: si conta il campionato fino all’ultima giornata giocata completamente. Questo vuol dire: Juve campione, Inter, Lazio e Atalanta in Champions. Fuori dalla coppa dalla grandi orecchia due abituè degli ultimi anni: Napoli e Roma. Con gli azzurri che però, assieme al Milan potrebbero ancora alzare al cielo la Coppa Italia, altra grande incognita.
Ecco che quindi le varie società iniziano a giocare su altri campi. Non quelli verdi d’erba, ma quelli che contano davvero. I tavoli federali e di lega. Dove davvero si decidono le sorti del campionato che più interessa alle dirigenze: quello dei soldi.
Juve-Inter quando si gioca? E Napoli-Inter? E le altre partite? Il Governo è chiaro: l’emergenza prima dello sport. Ma lo sport sfrutta questo momento per prendere posizione, per regolamentare alcuni conti e faide interne.
L’uscita del patron della Juve, il rampollo Andrea Agnelli, è emblematica: “La Roma esclusa è un ingiustizia”. Già, ma poi la palla passa all’Atalanta che non “meriterebbe” di stare in quelle posizioni. La sua unica colpa: il poco blasone.
La guerra al merito sportivo di Andrea Agnelli parte da lontano. Da anni il presidente bianconero, l’erede dell’Avvocato, spinge per la SuperLega modello americano. In parole povere: un campionato sempre più europeo dove l’accesso è fisso per tutte o solo per le big.
Un rigurgito di feudalesimo sportivo, spacciato per modernità. Un’elitè nobile che, a suo di wild card, concede alla plebe di partecipare alla giostra. Naturalmente il presidente della Juve guarda al suo giardino. La Juve, sempre più indebitata e che ha ormai la necessità di vincere la Champions, vede nella SuperLega un ecosistema protetto dove aumentare gli introiti e competere con club che possono, a differenza dei bianconeri, vantare un appeal internazionale maggiore.
Nonostante le velleità di Agnelli siano state frustrate prima dai club di Premier e poi dalla totalità delle leghe nazionali, il buon Andrea ci riprova. Sfrutta la situazione per esprimere i suoi concetti. E nel farlo prende ad esempio due squadre non casuali. Una big e una cenerentola che, nelle ultime stagioni, si sono scambiate di posto.
Ma forse non è questa l’essenza del calcio? Una piccola che sogna, una provinciale che può vivere il sogno Champions. Che può competere con le metropoli?
Secondo Agnelli però viene prima il blasone. O meglio il target. Come se la passione di 20mila atalantini valesse meno rispetto all’acquisto occasionale da parte di 5mila slovacchi, 3mila ucraini, 2mila polacchi e 4mila arabi di un biglietto per vedere non la Juve ma Cristiano Ronaldo.
Chiariamo: il tanto sognato sistema a franchigie o a inviti ci fa schifo! E la negazione del merito sportivo. La mazzata finale al romanticismo che c’è dietro al calcio.
Ma se guardiamo al di là della semplice dichiarazioni le parole di Agnelli sono anche un messaggio per gli equilibri di A che stanno cambiando. L’asse Juve-Roma che per anni aveva dominato la Lega sta lentamente cedendo il passo al duo Lotito-Cairo. Il passaggio sull’Atalanta potrebbe essere anche letto come un messaggio, non tanto velato, alla Lazio, altra squadra lanciatissima che, nel sogno agnelliano della Champions per ricchi, sarebbe esclusa.
E non è da sottovalutare nemmeno il Napoli. Gli azzurri, negli scorsi anni hanno avuto un percorso europeo (se escludiamo la semifinale di Champions della Roma) simile ai giallorossi. Sono una delle due “borghesi” che insidia la “nobiltà” delle tre del Nord e che ha approfittato del momento no di Inter e Milan.
Una stoccata anche al suo ex alleato, Aurelio De Laurentiis, che per anni ha sostenuto le tesi di Agnelli della SuperLega, salvo poi defilarsi quando si è reso conto che per Agnelli il Napoli non era certo “degno” della sua visione elitaria del pallone.
Insomma, un’uscita, quella del presidente juventino che può essere letta su due piani. Quello europeo nel tentativo di creare un campionato dove la storica identità apolide del marchio Juve può sprigionare tutto il suo potenziale, scevra dai “campanilismi” italici. Ma anche un tentativo di non lasciarsi sfuggire il proprio “cortile di casa”, ormai sempre più insofferente al monopolio bianconero. E non ci riferiamo solo al monopolio sportivo. Di quello ai presidenti interessa poco o niente. Ci riferiamo al monopolio dei diritti tv, dei tavoli federali. Alla politica non al campo, ai soldi non ai gol.
Perchè Italia o Europa, “basta che se guadagna”
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