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Volpecina: «Quel Napoli si rovinava l’esistenza con le piccole, come ora»

«Bianchi ci ammonì inutile vincere a Torino se poi non battete squadre tipo Empoli»

Più che una partita, fu un pezzo di storia. Il Napoli e tutta Napoli viaggiavano verso il Comunale di Torino quel 9 novembre del 1986 con una convinzione. «Una convinzione che non faceva altro che ripeterci Diego: ”Possiamo vincere, anzi siamo noi i favoriti”. A furia di dircelo, ce ne convincemmo. E poi ci dava tranquillità: si mise a palleggiare con una pallina da tennis nell’intervallo».
Giuseppe Volpecina, casertano della frazione di San Clemente era uno dei pochi azzurri ad aver già vinto uno scudetto con il Napoli: era uno dei titolari della Primavera di Mario Corso che nel ’79 aveva trionfato in Italia. «Con il Napoli giocavo da quando ero piccolo, sentivo quella maglia come una seconda pelle. La forze di quel gruppo era rappresentato da noi ragazzi del posto: io, Caffarelli, Bruscolotti, Muro, Marino, Di Fusco, Ciro Ferrara eravamo l’ossatura di una squadra che aveva una pazza voglia di vincere, che sentiva addosso l’attesa dell’intera città».
E con questo spirito, a pari punti in classifica, arrivò lo scontro-diretto con la Juventus: «La gente aveva cominciato a parlarci di questa partita da dieci giorni prima – ricorda il terzino sinistro – prima c’era la gara al San Paolo con l’Inter ma quasi non importava nessuno. Noi eravamo solo all’inizio del percorso e infatti pareggiammo con i nerazzurri in casa, un passo falso a cui nessuno ci fece caso perché sette giorni dopo c’era, per l’appunto, la sfida ai bianconeri».
Una rimonta strepitosa. Con un gol di Volpecina da cineteca (sia pure, forse, in fuorigioco): «Un sinistro di prima intenzione sul palo più lontano di Tacconi, come quello di Grosso contro la Germania. L’urlo della gente che gremiva il Comunale mi fece venire i brividi. Ma la cosa più bella arrivò alla fine, quando l’avvocato Agnelli ci fece pubblicamente i complimenti dicendo che aveva visto giocare la squadra che avrebbe vinto lo scudetto. Il punto è che loro non erano i più forti: erano soltanto abituati a vincere. Una cosa che noi non avevamo nel dna».
Quella gara diede la convinzione di essere i più forti. «Però dovevamo prima imparare un’altra lezione a cui Bianchi teneva moltissimo: ci diceva sempre che i due punti con la Juve erano inutili se poi non avessimo battuto l’Empoli. Il Napoli di quegli anni si rovinava l’esistenza proprio contro le piccole. Un po’ come succede adesso». Volpecina era arrivato a Napoli solo l’estate prima, proveniente da Pisa. In quegli anni gli azzurri cambiavano praticamente ogni estate il terzino sinistro. «E col Pisa avevo già capito che il punto debole del Napoli era proprio la concentrazione: con i nerazzurri vincemmo al San Paolo con un gol di Bergreen».
Lo volle Allodi in azzurro. «È vero, mi spiace quando non viene ricordato come l’artefice principale di quell’impresa meravigliosa. Nel delirio del ritorno, quando trovammo Napoli impazzita già durante lo sbarco a Capodichino, pensai proprio alle sue parole: si vince con un progetto serio. E noi lo avevamo».
La maledizione del terzino sinistro colpì anche lui: dopo solo un anno Volpecina fece le valigie. «Che rimpianto non aver giocato la Coppa dei campioni – spiega l’ex azzurro -, non aver potuto difendere quello scudetto. Il mio destino sarebbe cambiato se fosse rimasto Allodi, ma quel gol al Comunale è la gioia più bella della mia carriera. E sono contento di essere ricordato per questo dai napoletani».

Fonte: Il Mattino

La Redazione

P.S.

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