«È normale portare armi nel furgone, mica si va in Vaticano…». Frase intercettata nelle telefonate tra gli ultrà della sigla “Bronx” mentre organizzavano gli scontri al San Paolo. Una delle tante conversazioni tra capo e gregari. Molte di queste telefonate hanno per argomento l’organizzazione del gruppo. Prove di fedeltà e “allenamenti” a picchiare poliziotti e tifosi avversari, la conta dei nemici, codici e simboli. E poi c’era la ricerca continua di spranghe, mazze, bombe carta. Una gestione gerarchica, un capo con poteri illimitati sui suoi uomini. In pratica una organizzazione criminale e non un’associazione di semplici tifosi. Questa fu la fotografia dettagliata scaturita dal blitz della Digos del vice questore Filippo Bonfiglio, che per la prima volta in Italia ora viene tradotta in una sentenza. Ieri — fatto senza precedenti — il capo del gruppo Bronx e uno dei suoi sono stati condannati per associazione a delinquere. L’organizzazione non aveva nulla a che fare con il calcio e, come sottolineato dall’accusa, si trattava solo di violenza organizzata. Aveva chiesto il rito abbreviato il capo dell’organizzazione ultrà Francesco Fucci, il «grande capo» o anche «il proprietario del bar» per intendere casa sua, dove si trovava agli arresti domiciliari per droga nel periodo in cui venne intercettato nell’ambito dell’inchiesta. Anno 2010, scontri in quattro partite. Napoli-Atalanta, Udinese-Napoli, Steaua-Napoli, Napoli-Liverpool. Ieri il gup Giuliana Taglialatela ha condannato Fucci a due anni e quattro mesi per associazione a delinquere, resistenza e lesioni. Giovanni Luino è stato invece condannato a un anno con la sospensione della pena. Gli altri ultrà, nove, hanno scelto il rito ordinario. La sentenza per Fucci potrebbe influire su quella degli altri, ma intanto sulla decisione del giudice hanno certamente pesato molti dettagli. Il “bar”, per esempio. Ossia la casa di Fucci dove venivano convocati gli affiliati, ma anche i calciatori. Tra questi l’ex azzurro Fabiano Santacroce (ripreso dalle telecamere proprio mentre va a casa di Fucci). Il calciatore, ascoltato in Procura, si giustificò: «Cerchiamo di avere buoni rapporti con la tifoseria, soprattutto quella organizzata, anche perché questo ci consente di giocare con minore pressione». Ma il “proprietario del bar” avrebbe anche rapporti con il clan Mazzarella. Non solo. Il 31 maggio 2010, in Napoli-Chievo, compare uno striscione lungo la balaustra della curva B. Dice: “Il Pocho non si tocca!”. I tifosi vogliono che Lavezzi resti a Napoli. Ma poi si scopre che a volere quello striscione è stato Antonio Lo Russo, figlio latitante del boss pentito Salvatore Lo Russo: c’erano, dunque, rapporti stretti con la tifoseria violenta.
Fonte: La Repubblica
La Redazione
M.V.
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