L’ex calciatore della Juventus, Gianluca Vialli, ha rilasciato un’intervista ai microfoni del Corriere della Sera in vista dell’uscita del suo libro.
Famiglia benestante, uso del congiuntivo. E ora pubblica il secondo libro.
“Guardi che io sono cresciuto all’oratorio, come tutti. Non c’era la playstation, la tv aveva un solo canale. Sono della generazione di Carosello. E come tutti ho imparato dai preti a giocare a pallone; a patto di frequentare anche il catechismo”.
Esordio nel Pizzighettone, poi la Cremonese. Insomma, non il Real Madrid.
“La Cremonese resta la mia squadra del cuore. Da bambino però tifavo Inter. Mi voleva la Juve, ma non ero ancora pronto. Il presidente Mantovani mi spiegò il progetto della Samp. Che poteva aspettarmi. Mi cercò anche il Milan di Berlusconi e il Napoli di Maradona. Perché rimasi? Ogni volta Mantovani mi chiamava in ufficio, e mi spiegava la sua missione: sfidare lo status quo, ribaltare le gerarchie del calcio. Quando uscivo mi pareva di camminare sulle acque. Ero innamorato di lui, della squadra, dell’ambiente”.
A guastare la poesia alla Juve arrivò Moggi. Com’era?
“Un dirigente che ti metteva nelle condizioni di dare il massimo; e i calciatori pesano i dirigenti da questo. Non dal mercato o dalla politica. Calciopoli? Quella Juve avrebbe potuto vincere 6 o 7 scudetti su 10, rispettando le regole. Ma poi la gola ha fatto sì che tentasse di vincerli tutti, non rispettando le regole”.
Lei fu testimone al processo per doping. La Juve fu assolta, ma venne fuori un largo uso di farmaci.
“Posso parlare per me. Avrei potuto vivere più serenamente quella vicenda, come altri colleghi. Non ce l’ho fatta.Fu un’ingiustizia. Se prendevamo la creatina? Per qualche mese. Come tutti. Lecitamente”.
C’è una storia che finora nessuno conosceva. L’esperienza della malattia. Il cancro.
“Ne avrei fatto volentieri a meno. Ma non è stato possibile. E allora l’ho considerata semplicemente una fase della mia vita che andava vissuta con coraggio e dalla quale imparare qualcosa. Sapevo che era duro e difficile doverlo dire agli altri, alla mia famiglia. Non vorresti mai far soffrire le persone che ti vogliono bene: i miei genitori, i miei fratelli e mia sorella, mia moglie Cathryn, le nostre bambine Olivia e Sofia. E ti prende come un senso di vergogna, come se quel che ti è successo fosse colpa tua. Giravo con un maglione sotto la camicia, perché gli altri non si accorgessero di nulla, per essere ancora il Vialli che conoscevano. Poi ho deciso di raccontare la mia storia e metterla nel libro”.
L’intervento, otto mesi di chemioterapia, sei settimane di radioterapia. Come sta ora?
“Bene, anzi molto bene. È passato un anno e sono tornato ad avere un fisico bestiale (Vialli ride). Ma non ho ancora la certezza di come finirà la partita. Spero che la mia storia possa servire a ispirare le persone che si trovano all’incrocio determinante della vita. E spero che il mio sia un libro da tenere sul comodino, di cui leggere una o due storie prima di addormentarsi o al mattino appena svegli. Un’altra frase chiave, di quelle che durante la cura mi appuntavo sui post-it gialli appesi al muro, è questa: “Noi siamo il prodotto dei nostri pensieri”. L’importante non è vincere; è pensare in modo vincente. La vita è fatta per il 10 per cento di quel che ci succede, e per il 90 per cento di come lo affrontiamo. Spero che la mia storia possa aiutare altri ad affrontare nel modo giusto quel che accade. Vorrei che qualcuno mi guardasse e mi dicesse: “È anche per merito tuo se non ho mollato”.
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