Per una volta uniti, tifosi, società, esponenti istituzionali, per dire no agli stadi chiusi. E per esibirsi in poco prevedibili, raffinati, sottili approfondimenti per dimostrare un concetto ardito: che la discriminazione territoriale proprio non è razzismo. Così mentre ultrà storicamente rivali annunciano cori per far chiudere tutti gli stadi, ecco Giovanni Malagò invitare al buon senso, mentre Andrea Agnelli ricorda: «L’Italia è sempre stata la terra dei quartieri e dei piccoli paesi». «Quando uno stadio viene chiuso, vuol dire che tutti hanno sbagliato. Perdiamo tutti», ribadisce il ct della Nazionale Cesare Prandelli: «Ultrà che ricattano? Vuol dire che non si è fatta prevenzione».
«Abbiamo solo la nebbia»: è lo striscione ironico issato nel consiglio comunale di Milano per prendere la vicenda della chiusura del Meazza per i cori contro i napoletani con un po’ di sorriso. È una delle tante iniziative sorte per disinnescare la mina delle norme contro la discriminazione territoriale negli stadi. Certo sarebbe bastato che di fronte a certi cori intonati da «piccoli gruppi» ci fosse stato il dissenso esplicito del resto delle curve, degli stadi o delle società. Anche perché le norme volute dall’Uefa e recepite dalla Figc erano chiare. Invece la reazione scatta solo una volta che le sanzioni vengono applicate davvero.
Per prime sono state le società a chiedere che gli stadi non vengano chiusi. Mercoledì è toccato agli ultrà di Inter, Milan, Juventus, Napoli oltre che di mezza serie A, superare storiche rivalità e anni di scontri fisici (a seguito di «normali» cori) e rivendicare il «diritto di sfottò» annunciando cori come quelli che hanno portato alla squalifica di San Siro per Milan-Udinese del 19 ottobre e provocare una chiusura di tutti gli stadi della serie A. Una situazione potenzialmente esplosiva, che non piace al presidente del Coni, Giovanni Malagò: «Dobbiamo tornare tutti con i piedi per terra e usare il buonsenso. Si deve correre urgentemente ai ripari e trovare una soluzione che da una parte rispetti l’Uefa e dall’altra non faccia assistere a disastri come le partite a porte chiuse, perché così a perdere è solo il calcio». E le società, naturalmente, penalizzate prima negli incassi e poi in punti in classifica. Malagò chiede che «anche se per poche persone che esprimono in modo inaccettabile la propria opinione, non ci si ritrovi con tutto il resto della comunità del calcio costretta a non poter vedere le partite». La soluzione per centrare questo obiettivo il presidente del Coni non la dice, l’importante è evitare «il rischio che si arrivi ad un giudice che col compasso dica cosa è ironia e cosa è discriminazione. Rischiamo di sfiorare il ridicolo». Sulla linea della distinzione filosofica tra campanilismo e razzismo si posiziona anche il presidente della Juventus, Andrea Agnelli: «L’Italia – dice – è sempre stata la terra dei quartieri e dei piccoli paesi. Molto di quello che sta succedendo non è razzismo, ma è una peculiarità tipica del nostro Paese. Serve un approfondimento per distinguere lo sfottò tradizionale, che tutti fanno e che è parte del folklore del calcio e della tifoseria, da quelli che sono veri e propri atti discriminatori». Ragionamento sposato anche dal presidente della regione Lombardia, ed ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, «perché si rischia di penalizzare chi non ha nessuna intenzione di discriminare ma solo di prendere in giro i tifosi avversari, cosa sacrosanta nel calcio». Una riflessione condivisa anche dal ministro per lo Sport, Graziano Delrio, che annuncia il solito «tavolo» con Figc, Coni e ministero dell’Interno per «evitare sanzioni eccessive».
Fonte: Il Mattino.
La Redazione.
D.G.
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