E’ stata una cardiomiopatia aritmogena a provocare una fibrillazione ventricolare e il conseguente decesso per arresto cardiaco di Piermario Morosini, 25 anni, il calciatore del Livorno morto a Pescara, nello stadio Adriatico-Cornacchia, il 14 aprile, durante la partita disputata contro la squadra allora guidata da Zeman. Lo ha stabilito l’anatomopatologo Cristian D’Ovidio, docente all’università d’Annunzio, che ieri ha consegnato alla Procura di Pescara una perizia di 250 pagine. Questa patologia, di probabile origine genetica, era in fase iniziale. La cardiomiopatia aritmogena viene considerata la causa più frequente di arresto cardiaco negli atleti di alto livello, di questo morì anche il calciatore del Siviglia Antonio Josè Puerta Perez, aveva 23 anni, era il 28 agosto 2007.
Secondo la professoressa Cristina Basso, perito di parte della famiglia del calciatore, anatomopatologa e docente dell’Università di Padova, la perizia conferma l’ipotesi avanzata nei primi giorni dell’inchiesta: «La cardiomiopatia aritmogena è patologia silente, non evidente, che sì, può essere di origine genetica ma i cui effetti generalmente si manifestano in età medio giovane». Quanto anticipa il perito di parte, qualora venisse confermato, spazza via il primo grosso dubbio: Livorno, Atalanta e Udinese, le società sportive per le quali Morosini ha militato, non avrebbero responsabilità della sua morte in quanto, appunto, la patologia era comparsa da poco, era asintomatica e pertanto non rilevabile con analisi ed esami, per quanto accuratissimi, ai quali di norma vengono sottoposti gli atleti.
Resta il dubbio sulla prontezza e sull’efficacia dei soccorsi, e questo è il rebus da sciogliere. Conclude la professoressa Basso: «Se scoppia un incendio il pompiere corre con l’estintore, e per noi l’estintore è il defribillatore che non venne usato». In altre parole, secondo Basso, la morte di Morosini avrebbe potuto essere evitata se fossero stati giusti i tempi e i modi di soccorso allo stadio. Nelle concitate e caotiche fasi del soccorso l’apparecchio non venne impiegato, anche se sul campo ne erano disponibili due: i medici intervenuti dissero che sarebbe stato inutile.
Il pm Valentina D’Agostino, che pure ha seguito l’elaborazione della relazione del perito passo dopo passo, chiedendogli talvolta approfondimenti e integrazioni, si è presa qualche giorno di tempo prima di decidere nuovi passi. Rileggerà la relazione di D’Ovidio, firmata anche dalla tossicologa Simona Martello della Cattolica di Roma, poi dovrà unire i dati scientifici a quelli conclusivi delle indagini della Digos e decidere se ci sono, a suo parere, persone responsabili della morte del calciatore. E di queste chiedere al gip il rinvio a giudizio. I tempi non saranno rapidissimi, comunque al momento non risultano iscritti sul registro degli indagati tra tutti quelli che si affaccendarono in quei momenti drammatici, intorno al giocatore che moriva: nè medici, nè paramedici. Al momento non è indagato neanche il vigile urbano che con un parcheggio improprio dell’auto di servizio ostruì per qualche istante il passaggio dell’ambulanza. Alla fine pare di capire che questo intoppo fu ininfluente per la sorte di Morosini. Il rebus alla fine è uno solo: il mancato uso del defibrillatore.
Fonte: Il Messaggero
La Redazione
P.S.
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