Storia di un fallimento annunciato, quello del Napoli di Rafa Benítez. E non solo perché ne avevamo anticipato i problemi in questo blog, ma perché si percepiva e respirava la difficoltà del Napoli di essere squadra. Problemi palesati in ogni situazione importante, in Italia e in Europa. Dagli scontri diretti sempre persi quando contavano con la Juve, al capolavoro di riuscire a perdere con la Roma dei primi quattro mesi del 2015. Dal gol preso col Dortmund in vantaggio di due reti e di un uomo (gol decisivo per la differenza reti), all’eliminazione dell’anno scorso in Europa League. Per non parlare dell’insensato turnover di questa stagione che ha portato a sconfitte incredibili e pareggi, vedi Parma, ancor più incredibili e polemici. Non si diventa squadra con il silenzio stampa, né con il ritiro.
Si diventa squadra impedendo al piccolo Dnipro che stava uscendo ai gironi col Qarabag, e che ha perso contro l’Inter di Mazzarri, di andare in finale al posto tuo. Si diventa grandi accorgendosi di sbagliare e non reiterando nell’errore, senza aggrapparsi alla sfiga (che c’è a fasi alterne per tutti), all’arbitro di turno (che può sbagliare e ha sbagliato specialmente col Dnipro al San Paolo) o agli infortuni. Benítez ha provato a giocare un calcio offensivo, che però senza centrocampo di qualità è sempre stato un calcio fatto di ripartenze, improvvisazione e talento. Raramente di gioco e idee. La difesa ha sempre ballato e l’illuminazione (?) di scegliere Andujar in porta non ha aiutato. Una squadra si basa su un asse centrale forte: portiere, difensori centrali, centrocampisti e centravanti. Il portiere manca, i centrali di difesa sono modesti, i centrocampisti appena sufficienti e l’attaccante sarebbe un fenomeno realizzativo se non passasse le partite ad arrabbiarsi con i compagni e a centrare portieri come nelle ultime settimane.
Il Napoli di Benítez non ha mai lottato per il titolo in due anni. Ha vinto una Coppa Italia con merito e una Supercoppa in extremis, recuperando il doppio svantaggio in campo e quadruplo ai rigori con bravura e buona sorte, ma soprattutto con un Higuaín diverso. Sarà un caso, inoltre, ma Andujar non giocava in nessuna delle due partite. Ma soprattutto: tutto il turnover (inutile a mio avviso) scientifico di questi due anni, avrebbe dovuto portare vantaggi straordinari a livello fisico. Non è successo e quindi resta ingiustificabile. Se il Napoli fosse andato a Varsavia, non avremmo saputo chi mettere in campo. Ieri i due più in forma delle ultime settimane, Hamsik e Mertens, erano in panca. Nella partita più importante. Ma perché? Le squadre diventano tali con un gruppo solido, un colonna vertebrale e l’abitudine a giocare insieme. Tranne Maggio e Higuaín, gli altri nove potevano cambiare sempre. Ma perché? Non sono tutti uguali, una squadra ha bisogno di conoscersi per soffrire e diventare grande insieme. Non a caso, a Berlino – il 6 giugno – è arrivata la squadra italiana con non fa mai turnover.
La Juventus di Allegri giocherà con lo stesso undici di Madrid, salvo infortuni. E può fare il triplete senza aver mai ruotato più di 2-3 giocatori a partita. Senza aver avuto sette mesi Barzagli e altri sette Asamoah. Umiltà, lavoro duro e coesione di squadra mettono la Juventus tra le prime due della coppa più importante. Come rosa non lo è, ma il calcio non è la Playstation. Si vince con le palle, con il gruppo e con l’allenatore che sbaglia di meno. Benítez parla di budget per dire che il Napoli ha bisogno di spendere per andare in fondo. La Juve dimostra che è vero il contrario. Come lo dimostrano l’Atlético del 2014 e il Borussia Dortmund del 2013. Le idee (Pogba, Morata: entrambi a costo zero) valgono più dei soldi. Ma devono essere delle buone idee. Ci vuole solidità dentro e fuori dal campo. Tutte cose mancate al Napoli, non solo per colpa di Benítez. Juve e Napoli sono opposti che non si attraggono, ma da questa stagione c’è molto da studiare. E forse a Kiev si è avuta la conferma che l’unico turnover che serve al San Paolo è quello sulla panchina del Napoli. Per compiere il passaggio definitivo da buona squadra a grande squadra.
Il passaggio che è mancato anche alla Fiorentina, travolta dall’uragano Siviglia. Lo 0-5 totale, che a guardare le due rose non ci sta, è figlio della perfezione organizzativa di Unai Emery, un altro che di turnover ne fa poco e di fatti, invece, tanti. Dietro alle rotazioni si è bloccata anche la Fiorentina, lontana da posti d’élite in campionato e fermata sul più bello (in semifinale) sia in Coppa Italia che in Europa League. Probabilmente il ciclo Montella, come quello Benítez, è vicino alla conclusione. Ma la Viola, come totale di stagione, non poteva fare molto di più, se non lottare per avvicinarsi un pochino al terzo posto vista la disarmante lentezza di chi è davanti.
Fonte: Riccardo Trevisani per blog.betclic.it
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