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Thuram: ”Koulibaly può diventare più forte di me. Razzismo? Chiuderei gli stadi”

''Le società e le culture stanno cambiando e questo genera tensioni in Europa. Ammirare la bellezza di un team non significa odiare altri ed essere faziosi''

Nell’era tecnologica può succedere anche questo: la segnalazione che arriva non da un attrezzato scouting ma da un amico ristoratore. «Si chiama Roberto, ha una pizzeria vicino al mio ufficio a Parigi. Grande tifoso del Napoli, è stato lui il primo a parlarmi di Koulibaly». Lilian Thuram, ex campione del mondo con la Francia, uno dei difensori più forti arrivati in Italia (Parma e Juve), risponde dalla sede della sua fondazione che si occupa di diritti, non solo quelli degli uomini di colore. «Perché tutti abbiamo un colore», fragorosa la sua risata. Koulibaly, 23 anni, francese di origini senegalesi, nuova stella del Napoli, ha scelto Thuram come modello.

La storia di Koulibaly l’ha incuriosita?

«Molto. Me ne ha parlato Roberto e ho poi approfondito. Mi ha colpito il fatto che il calciatore del Napoli mi avesse scelto come modello. Ne ho avuti anche io da ragazzo: Tigana e Rijkaard».

Si è sentito un po’ vecchio ad essere preso come modello?

«No, ho avvertito una sensazione strana. Mi hanno fatto piacere le parole di questo ragazzo, che evidentemente havisto solo la parte buona della mia carriera… Koulibaly è molto giovane e i giovani hanno bisogno di più riferimenti professionali, uno non basta: si possono osservare più calciatori, più atteggiamenti, perché non ce n’è uno solo che abbia qualità».

Il sogno di Koulibaly è diventare grande come Thuram.

«Non bisogna porsi limiti, si deve lavorare e avere coscienza dei propri errori: è questo il modo migliore per affermarsi. Lui può diventare più bravo di Thuram se ci crede e se vuole arrivare ad essere il più bravo. Intanto, sono contento che questo ragazzo sia entrato nel cuore dei tifosi del Napoli».

Koulibaly ha indicato altri due modelli,Malcom X e Nelson Mandela.

«E questo me lo fa apprezzare ancora di più. Lui guarda oltre il calcio e la sua professione, ha studiato e dà valore a due personaggi che hanno combattuto contro la disuguaglianza nella società e lo hanno fatto quando questa lotta non era compresa. Io giro nelle scuole e dico ai bambini che per migliorare il mondo bisogna denunciare le cose che non vanno, anche a costo di non essere capiti subito. Se oggi siamo questi, è perché ci sono stati uomini e donne che hanno denunciatole disuguaglianze. E non ha importanza qual era il colore della pelle di chi ha portato avanti questa lotta per cambiare la società e fare giustizia».

Eppure, non è così agevole l’integrazione, non soltanto nel calcio: ci sono periferie d’Italia dove ci sono preoccupanti fenomeni di intolleranza razziale.

«Queste tensioni ci sono perché il mondo sta cambiando ed è difficile prenderne subito consapevolezza. C’è una trasformazione in atto e non c’è sempre un’apertura verso la parità di genere, religiosa, sessuale, razziale. L’Italia e la Francia non sono più quelle di cento anni fa e i cambiamenti vanno metabolizzati e accettati. A lungo l’Europa si è sentita al centro del mondo, superiore a tutti gli altri popoli,e invece quelle persone che erano state ritenute inferiori sono vicine a noi, sono qui. Non possiamo sorprenderci se pensiamo che in America il primo bambino nero è entrato in una casa di bambini bianchi nel 1954: sessant’anni fa, non tanto tempo è trascorso. Era stata edificata una cultura gerarchia: ad esempio, l’uomo si è sentito superiore alla donna perché è questo il messaggio che gli hanno trasmesso. Il cambiamento è in atto, non si può e non si deve tornare indietro. Spero che vi siano esponenti della politica e della società che sappiano guidare questa fase. Il cambiamento è naturale: se una cosa non cambia è perché è una cosa morta».

Come spiega che Tavecchio, dopo un’espressione razzista, sia stato eletto presidente della Federcalcio e poi sospeso dalle commissioni internazionali?

«Qualche anno fa non si sarebbe fatto tanto rumore per quelle parole e questo è un segnale di attenzione verso certe situazioni. Ma un brutto segnale è stata la successiva elezione alla presidenza della Federcalcio: se Tavecchio avesse detto certe cose, inaccettabili, negli Stati Uniti, la sua carriera sarebbe morta. Ma Uefa e Fifa si sono accorte di quanto era accaduto e sono intervenute. È anche questo un segnale di cambiamento».

Lei porta avanti una forte campagna sul razzismo, ma non è solo quello sul colore della pelle: giocatori e sostenitori del Napoli sono offesi in tutti gli stadi, eppure ai club di quelle tifoserie arrivano solo multe.

«Sbagliato non chiudere un settore o uno stadio per questa forma di razzismo, perché di questo si tratta: tu mi offendi, dici che posso morire perché sono meno di te. Io ho avuto per tanti anni Fabio Cannavaro come compagno e trovavo inaccettabile che gli urlassero ”terrone”: mi chiedevo come si potesse far finta di niente, le parole hanno sempre un loro peso. La nostra strada dev’essere quella del rispetto ed ecco perché la sanzione per un ”terrone”deve essere pari al ”buu” indirizzato a un calciatore con un altro colore della pelle».

Gli stadi sono diventati territorio di violenza verbale e fisica: nello scorso maggio un tifoso del Napoli, Ciro Esposito, è stato colpito a morte a pochi chilometri dall’Olimpico prima della finale di Coppa Italia.

«Questo perché c’è chi ha un approccio sbagliato al calcio. Chiama il calcio dovrebbe poter avere la libertà di tifare per il Barcellona e anche per il Real Madrid: ammirare la bellezza di una squadra non vuol dire rappresentare una fazione, vivere una contrapposizione che genera odio. E l’odio sfocia sempre in violenza. Per questo bisogna fare attenzione ai cori, agli striscioni, a quanto c’è intorno a una partita di calcio».

Ha scritto un secondo libro, «Per l’uguaglianza», raccontando la sua storia e il lavoro della sua fondazione.

«Parto dalle mie origini, da Guadalupa,e parlo tanto di calcio, la mia vita: se sono diventato questo uomo,lo devo al calcio,che mi ha dato la possibilità di conoscere persone, anche complesse nella loro identità. Perché non basta conoscere un napoletano per pensare di aver conosciuto tutti i napoletani: bisogna entrare nella parte profonda delle persone».

Lei un napoletano lo ha conosciuto bene, Cannavaro.

«Mio fratello Fabio. Cinque anni insieme al Parma e quattro alla Juve, se sono riuscito a giocare a certi livelli e a vincere è perché ho avuto la fortuna di averlo come compagno. Una gran bella coppia, ci capivamo al volo. Di Cannavaro mi colpiva il suo piacere di giocare, l’affrontava sempre con il sorriso. Mandava un messaggio agli avversari: oggi sarà dura per te, ma scherziamo e ridiamo…».

Manca questa allegria al calcio?

«Cannavaro va benissimo, ma ci vogliono pure altri, o no?».

Fonte: Il Mattino

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