Diciamo la verità: sino a qualche tempo per i mancini sono stati tempi duri. Il “mancinismo” era un difetto, roba che andava corretta a tutti costi perché era quello destro il lato “giusto”. Lo era per la scienza e per la Chiesa, per la casa e per la scuola. Lo era dappertutto, tranne che nel mondo dello sport, più tollerante e lungimirante di tutto quanto gli girava attorno. Di più: in certe discipline essere mancini era (e forse lo è ancora) addirittura una sorta di vantaggio. Nel tennis, ad esempio. E nella boxe e pure nella scherma. E nel pallone? Sì, pure nel pallone, come proprio Napoli può testimoniare. Napoli che dei numeri 10 ha avuto il più grande che sia mai sbarcato sul pianeta Terra. Lui. «la mano de Dios». E il piede di chissà chi. E’ vero, altri mancini ha avuto il Napoli, ma nessuno come lui. Nessuno che abbia saputo esaltare, divertire, far impazzire e far vincere il Napoli, Napoli e i napoletani come seppe fare Lui. Maradona, dunque. E poi. Quali gli altri mancini da mettere nella galleria dei più bei sinistri azzurri? Beh, nel Napoli moderno, quello che va dalla metà del secolo scorso sino ad oggi, un posto in prima fila ce l’ha il mancino sapiente e divertito del Petisso. Argentino pure lui, Bruno Pesaola ha attraversato ed attraversa orgogliosamente la storia della squadra. E oggi che va felicemente per i novant’anni e non rinuncia alle sue battute fulminanti, può raccontare di aver fatto gol e di averne fatti fare anche a Jeppson e Vinicio, ad Amadei e Di Giacomo, a Del Vecchio ed a Vitali, tutti signori del gol dei tempi andati. Anni Cinquanta. Poi i Sessanta, raccontati da altri due argentini: Juan Carlos Tacchi e Omar Sivori. Tacchi, ala sinistra vecchio stile, corto e leggerino, ma dallo scatto rapido e dal sinistro che diceva al pallone dove andare. Tant’è che la sua specialità erano i gol direttamente dalla bandierina. Corner e sinistro tagliente per la gioia del tifo azzurro e pallone direttamente nella porta. Poi, pagato settanta milioni e l’acquisto di due motori per le navi della flotta Lauro, nel ’65 dalla Juve arrivò anche “el cabezon”. Omar Sivori, la genialità fatta “sinistro”. Calzettoni abbassati, piede irriverente, specialista in tunnel, sapeva come fare gol, e come farsi odiare da chi gli stava contro. «Ha gli occhi dietro la schiena» raccontava di lui Ottavio Bianchi. Un grande, Sivori. Se vogliamo: il Diego degli anni Sessanta. E quando andò via Sivori la sua maglia finì sulle spalle di un poeta. Claudio Sala, il poeta del gol. Icona del Toro. Sala col suo calcio elegante e il suo incedere aristocratico con la palla al piede, fu una meteora nel panorama azzurro. Una stagione e basta. Ma bastò per restare nei ricordi dei napoletani. E per il Napoli fu pure un grande affare: preso dal Monza per 125 milioni, dopo una stagione fu rivenduto al Milan per 480. Nel ’76 a Napoli arrivò cavallo matto. Luciano Chiarugi. Venne dal Milan col suo dribbling secco, lo scatto rapido da fermo e le sue punizioni fulminanti. Però con una nomea non proprio da galantuomo dell’area di rigore. Fu Michelotti, l’arbitro, a dargli la patente di simulatore. Un’etichetta che nessuno gli ha tolto più di dosso. Ma furono gli anni Ottanta gli anni dei sinistri. Palanca, Diaz, Dirceu e poi Maradona. Quelli tra l’81 e l’84 furono anni mancini. E si aprirono con «piedino di fata». Quello di Massimo Palanca, col piede così piccolo da aver bisogno di scarpe fatte su misura per la sua specialità: i gol da calcio d’angolo. Addirittura 13 nella sua carriera.
Da Palanca a Diaz. Ramon Diaz, guarda caso argentino pure lui. Una freccia in campo. Un dribbling secco e un tiro micidiale. E anche un gran futuro in Italia, poi ancora in Argentina e ora in Paraguay da ct di quella Nazionale. Ma c’è anche un sinistro brasiliano nella storia azzurra. José Dirceu. Lo zingaro, per come girava il mondo cambiando sempre maglia. Classe pura sudamericana, quella di Dirceu e gol da mettere in cornice. Però con un finale triste per José, che aveva deciso di vivere in Italia ma che perse la vita in Brasile per un incidente. Storie belle e brutte di grandi mancini. Settanta in tutto nella storia azzurra. L’ultimo da tenere a mente forse è Pandev. Ma quella dei mancini è una storia che va avanti. Ed è a Manolo Gabbiadini che tocca scrivere il prossimo capitolo.
Fonte: Corriere dello Sport
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