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Successe 24 anni fa: l’antidoping e quel 17 marzo epilogo di Diego in azzurro

24 anni fa l'antidoping metteva la parola 'fine' all'esperienza di Diego in azzurro ma, ad oggi, nessun amante del calcio ha dimenticato le prodezze del Pibe

Chi ama, non dimentica. Ma non a parole, per spararsi le pose: vicoli del Centro Storico, campetti di periferia e lo stadio, quel San Paolo benedetto, profumano ancora di Pibe, di Diego. Il più grande di tutti, almeno per i napoletani (me compreso) ed i ‘cognati’ argentini, perché fratelli del nostro amore più grande, dopo il Napoli (ovviamente).

Certe date, però, restano impresse nella mente: nessuno, manco chi non c’era o, addirittura, non era ancora nato, potrà mai dimenticare il 30 giugno ’84: un riccioluto argentino da Barcellona arrivava al San Paolo per palleggiare un pallone gigante a forma di Mondo e promettere agli ottantamila astanti un titolo nazionale. E non veniteci a dire che Diego la promessa non l’abbia mantenuta.

Ogni amore più estroso, passionale, pazzo e tormentato però, di fianco alla data di inizio ne ha quasi sempre un’altra che ne sancisce la fine. Era il 17 marzo del 1991, esattamente ventiquattro anni ad oggi, quando il Pibe (con ‘l’ausilio’ dell’antidoping) decise che era finita. Ma il popolo, suo amante carnalmente sottomesso da “una finta che scioglie ‘o sanghe dint’ e vene”, quell’amore non lo scorderà mai.

Ma cosa successe al Pibe? Inutile cadere nella retorica o cercare di giustificare l’uomo: come spesso capita ai geni, il suo estro dentro e soprattutto fuori dal campo, unito al suo amore per gli eccessi, che sia un tunnel dolcemente superfluo (ma non per le coronarie dei suoi tifosi) o un bagno in una vasca a forma di conghiglia dai Giugliano, lo ha portato (e qui ci sembra quasi di parlare di Napoleone) più volte dalla ‘polvere all’altare’ e viceversa. Come da lui stesso ammesso, chissà che giocatore sarebbe potuto essere senza l’uso di droghe (non dopanti, ovviamente): un giocatore unico, che unico lo è già stato. E che sia “meglio ‘e Pelé” o meno utile di Messi, questo lasciamo dirlo a chi crede che il calcio sia un mero gioco. Qui si parla di emozioni, di vita, d’amore.

17 marzo 1991: è il day after un Napoli-Bari, Dieguito (che a settembre voleva andare a giocare in Francia nonostante il tricolore cucito sul petto) risulta positivo ai test anti-doping, altro che EPO, Nandrolone o trucchetti vari, il vizio del Pibe è la cocaina, la Dama Blanca (come cantato da Rodrigo Bueno nella sua ‘Mano de Dios’) contro cui più volte proverà a lottare negli anni a seguire. Chissà se per il troppo amore o semplicemente per noia, chissà se per il fatto che essere un Dio è sempre un po’ impegnativo per chi nasce semplicemente uomo, fatto sta che a quasi sette anni da quel pomeriggio estivo Diego lasciò, o se preferiamo fu costretto a lasciare. Come sempre provò a spiegarsi: a qualcuno, in Federcalcio, aveva bruciato che avesse, con la sua Nazionale, eliminato (proprio al San Paolo) l’Italia di Schillaci, ma si sa: quando si parla d’amore è meglio lasciare ad ogni innamorato il suo personalissimo point of view. Dopo quel 17 marzo el Pibe giocò un’ultima gara (sette giorni) con la maglia azzurra, segnando nella sconfitta per 4-1 a Marassi l’ultima rete con la ’10’ del Napoli. Tempi passati, memorie andate ma l’amore, quello resta.

 

Mirko Panico per Campaniagol.it

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