L’uomo che correva più veloce di tutti gli altri e tale restò per 17 infiniti anni (dal mondiale segnato nel ’79 fino a Michael Johnson, Atlanta ’96) non c’è più; l’uomo bianco fuori ma nero dentro, di rabbia, che riusciva a sconfiggere le creature del laboratorio come Valery Borzov e i coloured americani con quei loro fisici bestiali che quando gli correvano nella corsia accanto quasi gli sbattevano le ginocchia sul mento.
Loro, i neri d’America (Usa o Giamaica che sia) potevano e potrebbero fidarsi di quelle gambe no limits, di quel gene dello sprint che corre nel loro sangue: lui, Pietro Paolo Mennea da Barletta, no. Doveva avere, al posto di quel fisico bestiale, lui non grande né grosso e perfino un po’ stortignaccolo nell’andare, la ferocia di una bestia, nobilissima: la ebbe. Prima di tutto con se stesso. Poté levarsi la voglia d’una birretta solo dopo quindici anni, comprendenti 5.482 giorni di allenamento e 528 gare, perché il suo allenatore da campione non gli consentiva che l’acqua e neppure gasata, stai a vedere che le bollicine ti mettano perfino pensieri leggeri. Mennea il pensiero doveva averlo, e voleva, averlo unico: la velocità.
Fu così che dalle corse intorno alla cattedrale di Barletta, dove l’amico Pallamolla era inarrivabile ma Pietro lo arrivò e sconfisse, dalle sfide notturne contro le fuoriserie che gli davano appena il vantaggio del motore spento in partenza e di qualche metro in via Pier delle Vigne o in viale Giannone, Mennea arrivò agli stadi di tutto il mondo. Quelli delle Olimpiadi (ne ha fatte cinque! quanti cerchi e quante le lauree che poi prese) e dei Mondiali, degli Europei e dei Campionati italiani, dei meeting e delle Universiadi.
Già, proprio uno di questi ultimi, piazzato in mezzo alle nuvole di Città del Messico dove l’aria è più fina e la velocità si esalta, lo vide protagonista nel 1979 di quel 19:72 sui 200 metri che fu record del mondo per 17 anni e che ancora lo è d’Europa e d’Italia e che gli fece dire quel giorno «mi dispiace averlo tolto a uno che non avrei voluto mai»: era Tommie Jet Smith, il nero che, con un guanto solo, prese a pugni il razzismo e il cielo a Messico ’68 sul podio.
Alzava il dito, Mennea: lo fece anche a Mosca quando riuscì nella più incredibile delle rimonte su Wells e vinse l’oro. In quei metri della dirittura dello stadio allora sovietico (era il 1980) dovette mettere nelle gambe, nel cuore, in ogni fibra muscolare, tutta quella rabbia, quella ferocia appunto, di ragazzo nato nel Sud senza pista d’atletica, allenato all’elasticità sulla battigia e alla voglia di farcela dalla fame, che non era solo l’ideale fame della vittoria, ma la pratica fame da tavola. Il papà sarto gli cuciva i calzoncini con la stoffa rimediata, le scarpe le comprava almeno d’un numero più grande perché i piedi e i bambini crescono.
Ma che atletica avemmo, ai tempi di Pietro e Sara! Siamo la Germania dell’Est dell’Ovest diceva l’orgoglio di Primo Nebiolo. Lo eravamo, senza l’aiuto delle provette di Stato. Lo eravamo, quando ragazzi senza iPod e senza tablet, senza scuola calcio e venuti su sulle note dei Baetles, sapevano meglio d’ogni altro che «soffri e sogni» come ha detto una volta Pietro Paolo Mennea da Barletta. Soffri, e sogni, e corri. Anche verso ogni traguardo, di quelli che per Mennea non erano mai un arrivo ma i blocchi di partenza per la corsa (e l’allenamento, e la fatica) del giorno dopo. Ogni giorno dopo ogni giorno. Magari a qualcuno, scontroso com’era, era meno simpatico: però ci faceva emozionare tutti.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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