ROMA – Mai un istante senza patria, senza bandiere, senza idee. Miralem Pjanic non vuole essere un nomade. Lo sarebbe diventato se fosse stato solo per i tifosi della Roma esausti nell’aspettare due anni la manifestazione della grazia divina di cui tanto avevano sentito parlare e che tanto raramente avevano avuto il bene di vedere. Il direttore sportivo Walter Sabatini non lo voleva cedere per sfiducia o per delusione, sia chiaro, ma solo perché una volta che si decide di ricostruire la squadra allora non possono esistere pietre che devono restare fisse o intoccabili come nei reality show. Ma qui è arrivato Rudi Garcia a dire toglietemi tutto, non il mio Pjanic, perché naturalmente il francese aveva già in testa un disegno di Roma e riusciva a immaginare la sua squadra senza tanti uomini o ragazzi, senza Lamela, senza Osvaldo, forse persino senza De Rossi; ma non senza Pjanic. Il suo regista perfetto, il suo joypad in campo, il telecomando con il quale governa la squadra, il magnete che scolpisce intorno a sé il centrocampo. Là dove pulsa il cuore del gioco, come ripete Garcia in una delle più celebri tra le sue frasi storiche.
STANCO – Pjanic, condannato a essere un nomade e capace di rifiutare quel destino. Lo hanno trascinato via dalla Bosnia perché la guerra non inghiottisse lui e la famiglia, ma lui alla Bosnia è voluto tornare fino a portarla al Mondiale, a un nuovo stadio della storia del calcio nazionale. «E ne sono orgoglioso. Ma sono orgoglioso anche di fare quello che sto facendo con la Roma. Sono partite che stancano. Però è bello viverle» . Ha giocato a Lione e ha imparato alla perfezione il francese, oltre che a tirare le punizioni a spiovente assassino da Juninho, perché s’immaginava in Francia molto a lungo, forse per sempre, placato, soddisfatto. Così quando volevano farlo spostare persino da Roma ha messo radici. Con tutte le sue prestazioni di questa stagione, dall’estate americana a oggi, e ancora di più con la doppietta di ieri sera, la prima in maglia giallorossa.
Separiamola nei suoi due componenti, un gol alla volta nei momenti in cui la partita si stava avvitando a terra e poteva prendere una forma o l’altra, una soluzione oppure l’opposta. La punizione precisa come l’arco tracciato da un compasso, al tramonto del primo tempo. Il rigore che ha rovesciato il Napoli nel momento in cui stava costruendo acrobazie incontrollabili per la Roma che in quel momento gironzolava per il campo. «Sono stato fortunato. La punizione è entrata nell’attimo giusto. E adesso si parlerà della mia doppietta oltre che di tutto il resto. Ma io non sono niente se la squadra non gioca così, se non fa quello che dice l’allenatore e se non stiamo tutti bene. Non voglio parlare di obiettivi, certo però puntiamo in alto» .
INSIEME – E’ uno che sceglie, Pjanic. Ha scelto lui di tirare il rigore. Non c’era Totti, Strootman era sfiancato, Ljajic guardava il pallone goloso ma esitava a farsi avanti. E lui in quel momento era il Totti in campo, il giocatore con il fato nei piedi e la luce in testa, tutto quello che serve a prendere in mano quei rari istanti che dividono le grandi giornate dalle occasioni mediocri. «Ma non sono io. Siamo tutti. E’ Borriello che entra in campo così. E’ la maniera in cui tutti sappiamo soffrire, il fatto che chiunque entri in campo gioca bene. Siamo tutti importanti e questo conta. Difendiamo insieme e non prendiamo gol» . Come una vera comunità, quella in cui Pjanic ha sempre desiderato vivere.
fonte: Corriere dello Sport
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