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Scudetti, campioni e dispetti quando Berlusconi voleva Diego

Un duello infinito, stavolta in palio c’è la qualificazione in Champions League

C’è un prologo a queste sfide che negli anni hanno fatto sognare la gente del Napoli e del Milan. Fosse un film si direbbe che l’antefatto è un sequel. Come un soggetto cinematografico si snoda attraverso intrighi, mosse a sorpresa e contromosse. Si svolge tra i saloni dell’hotel Brun di Milano, prende forma durante l’imbrunire suggestivo del lago di Como e ha l’epilogo in un ufficio immerso nei picchi di cemento che fanno da corona a Milano 2. È il 7 novembre 1987: una Mercedes bianca lascia l’albergo del ritiro del Napoli. Alla guida c’è Guillermo Coppola, il manager di Maradona. Sta calando la sera, è un sabato, il giorno dopo alla squadra con la maglia azzurra tocca una partita non proibitiva ma molto delicata a Como. Coppola si dirige verso Milano 2, il grande complesso immobiliare e sede del gruppo che fa capo a Silvio Berlusconi. Ad attenderlo al diciottesimo piano c’è il Cavaliere in persona, insieme con lui Adriano Galliano e Silvano Ramaccioni. L’offerta per avere Maradona al Milan è strabiliante: il doppio di qualsiasi offerta di rinnovo contrattuale gli avesse proposto Corrado Ferlaino, un appartamento a San Babila, una Lamborghini Miura e un remunerativo contratto con Canale 5. «Alla fine la spuntò il Napoli. Diego non è mai stato veniale, piuttosto lo era chi gli gestiva gli affari – si accalora Ferlaino –. Certo, non fu semplice fargli accettare il rinnovo, alla fine Maradona si dimostrò attaccato alla maglia più di quanto si potesse immaginare». Comincia con questo round tra l’Ingegnere e il Cavaliere la storia recente dei duelli tra Napoli e Milan. Un lungo derby che da anni, tranne le infelici parentesi in B e C degli azzurri, si profila nel cielo dei due stadi, che riscalda i discorsi non solo dei bar ma anche quelli sul web. Diciamolo di sfuggita. È un vecchio pregiudizio che si parli di calcio solo nei luoghi destinati. Perché i dibattiti sulle grandi sfide riguardano gli interi contesti cittadini, volano trasversali tra i ceti sociali fino ad arrivare addirittura, negli anni Ottanta, alla ben più grande e complessa partita tra Rai e Mediaset. Da una parte la tv pubblica schierata in difesa ad oltranza della causa azzurra, grazie alle simpatie partenopee dell’allora direttore generale della Rai Biagio Agnes; dall’altro lato dell’antenna Silvio Berlusconi, padrone assoluto del Milan, di Canale 5, Retequattro e Italia 1. Colpi più o meno proibiti caratterizzarono il confronto. Tanto che il duello tra Napoli e Milan ha rischiato più volte di soppiantare quello tradizionale fra gli azzurri e l’eterna nemica Juventus.  Il primo match vero è quello del 13 aprile 1986, si gioca al San Siro, è l’ultima vittoria azzurra nello stadio milanista, la partita finisce sul 2-1 (Giordano e Maradona, Di Bartolomei per i rossoneri) in quel pomeriggio qualcuno ha potuto dire: noi siamo stati più forti di voi? Ma in assoluto? Chissà. Si può prendere come unità di misura l’anno prima o quello dopo ma il dubbio rimane. «Macché, eravamo una squadra quasi imbattibile – spiega Giordano –. È una soddisfazione oltre che un gran nodo alla gola tornare con la mente ad allora. Il Milan era diventato l’avversario da battere comunque». L’anno horribilis del Napoli segue il primo scudetto. A parte le due sconfitte subite (4-1 e 2-3), in quel campionato matura la clamorosa rimonta del Milan, propiziata dal rientro dall’infortunio di Van Basten, dal vistoso crollo atletico degli azzurri, confermato dai reduci di quella stagione. «Non stavamo sulle gambe», ripete ancora oggi Nando De Napoli. La stagione successiva è quella del riscatto: alla fine del girone di andata il Napoli è primo. A febbraio il Milan lo batte a San Siro e lo raggiunge. Corsa incerta sino all’8 aprile 1990, si gioca a Bergamo, contro l’Atalanta. Nel finale una moneta colpisce Alemao. Arriva Salvatore Carmando e gli sussurra all’orecchio “statte ‘nterra”. Certo, Alemao è brasiliano, però qui gli stranieri del calcio imparano prima il dialetto e poi la nostra lingua madre. Il Napoli vince 2-0, grazie a una norma sulla responsabilità oggettiva, poi cancellata su pressioni del Milan. «Mai visto uno scudetto costato solo cento lire», chiosò l’avvocato Agnelli. Il Napoli festeggia il titolo il 29 aprile. Al Milan è fatale la partita con il Verona. «Non ho ricordi di quelle stagioni, ero poco più di un bambino – racconta Paolo Cannavaro, il capitano di oggi -. Però un Milan-Napoli l’ho ben impresso nella mente e non solo perché segnò, per la prima e ultima volta con la maglia azzurra, mio fratello. Ma per aver sostenuto a squarciagola con gli amici la mia squadra. Avevo 14 anni. Allora non c’erano le pay tv, le partite si ascoltavano attraverso una radio privata. Otto gennaio, stagione 1994-1995, eravamo sotto di un gol, pareggiammo a tre minuti dalla fine grazie a una prodezza di Fabio. Fu un tripudio in famiglia e con gli amici». Poi arrivano gli anni bui, senza più Maradona e senza sussulti. Il focolaio si riaccese ben sedici anni dopo. Il Napoli dell’era De Laurentiis, al primo anno di A, stroncò alla penultima giornata la corsa dei rossoneri verso la zona Champions: 3-1. In gol Hamsik, bellissimo quasi un coast to coast, Domizzi, Garics e Seedorf per i milanisti.  Domenica il Milan tenterà di bloccare il volo del Napoli verso un’altra avventura Champions. Sarà come rivedere un vecchio film, anche se i paragoni con Maradona, Careca, Van Basten, Gullit e i ragazzi di oggi è meglio non farli. Perché qui terminano i punti di contatto tra le due storie. Iniziano le sfide di oggi. Quelle aspre fatte anche di parole. Mazzarri e Allegri ogni tanto si beccano e la cosa, di per se contenuta, è accettabile. Si sa che non la pensano allo stesso modo. Che dire? Ognuno si tenga le proprie certezze: tanto i conti, questo a Napoli è arcinoto, si fanno alla fine.

Fonte: Il Mattino

La Redazione

P.S.

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