Sarà colpa del gol a freddo di Miniati; sarà che il Poggibonsi non ha lo stesso appeal delle grandi squadre, decadute o no; sarà che, in fondo in fondo, una città come Salerno non può festeggiare più di tanto la promozione in Prima Divisione. Sarà quel che sarà ma alla fine all’Arechi va in scena una festa in tono minore, senza troppo entusiasmo. Certo, la coreografia della curva Sud che accoglie le due squadre in campo è di un’altra categoria, ma l’emozione granata dura poco. Anche perché, dopo soli sei minuti, la Salernitana è già sotto di un gol, vittima di una clamorosa amnesia difensiva. L’urlo dell’Arechi resta strozzato in gola, squadra e pubblico accusano il colpo ma il tempo di reazione degli ultrà è molto più basso rispetto a quello di Montervino e compagni.
Se in campo lo spettacolo latita, sugli spalti i tifosi strappano applausi. Il cuore del tifo granata è la curva Sud, dove sono assiepati più di cinquemila ultrà. La coreografia è da brividi, spoon river del pallone con la gigantografia del Siberiano, nome d’arte di Carmine Rinaldi, che sovrasta la bandiera sudista con la croce blu su sfondo rosso che occupa tutto l’anello superiore. Più che il ricordo della guerra di secessione americana, la bandiera sudista in salsa salernitana è il simbolo dell’attaccamento alle tradizioni e alla cultura. Avrà invece strappato un sorriso al sindaco De Luca, in tribuna autorità con Lotito e Mezzaroma, la coreografia srotolata nell’anello inferiore, il disegno (un po’ troppo coraggioso) della Salerno che verrà tra il golfo e lo skyline. Tutto il resto dello stadio applaude, calciatori compresi.
Per avere altri applausi, invece, bisogna aspettare più di un’ora. Sono timidi quelli per Guazzo, espulso, che risponde battendo a sua volta le mani prima d’infilarsi nel tunnel che porta agli spogliatoi. Molto più sentiti, invece, quelli per Ginestra, l’eroe della promozione che di testa infila il gol del pari su cross di Capua. La festa può iniziare, almeno in panchina ben prima del triplice fischio finale, ed è festa vera. Tutti i calciatori indossano una t-shirt celebrativa – «RieccoC1» -, si stringono forte al pubblico in un abbraccio ideale e intonano i cori della curva. Arrivano anche Lotito e Mezzaroma, il primo più avanti, ancora avvolto nell’immancabile cappotto. Il cognato è un passo più dietro, schivo come al solito, impeccabile nel suo trench beige. Non c’è De Cesare – che l’anno scorso costrinse il patron a uno scatto per evitare il gavettone che gli procurò una lesione al flessore della coscia – ma Lotito finisce lo stesso nel mirino dei suoi che provano per un attimo, solo per un attimo, a portarlo in trionfo prima di virare su Mezzaroma, più leggero e atletico.
Mentre i calciatori festeggiano qua e là per il campo, il presidente della Lazio si concede un lunghissimo giro di campo per raccogliere gli applausi e i cori dei suoi tifosi. Si ferma a parlare con loro, faccia a faccia, si dice pronto a costruire una squadra vincente anche in Prima Divisione ma avverte: «Voglio più tifosi allo stadio. Sempre, tutte le domeniche».
È quota diecimila l’obiettivo e il patron non ne ha mai fatto mistero, ma è difficile riempire uno stadio nella vecchia serie C, che sia C1 o C2. Neanche ieri, nel giorno della festa, nel giorno del record stagionale di presenze, il muro viene abbattuto: 9.438 spettatori, quota abbonati compresa. Per una volta, però, Lotito può mettere da parte la maschera del cattivo, stavolta c’è solo da festeggiare. E festa sia, con il pubblico che chiama il patron e gli canta «Portaci a Verona», dove due anni fa evaporarono in un colpo solo il sogno della serie B e la vecchia Salernitana di Lombardi. Il patron ringrazia, prende il microfono e arringa tutti in stereofonia: «Venite sempre in diecimila e andiamo in serie B».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
M.V.
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