Il mondo del rap newpolitano incassa l’endorsement di De Laurentiis e di Ischia Global come una conferma: è il suo momento d’oro e bisogna approfittarne. Rocco Hunt, però, sia pur «felice, anzi orgoglioso, della considerazione del presidente», e della possibilità di incontrare nella rassegna isolana una star del calibro di 50 Cent, non se la sente di scrivere l’inno del Napoli, anzi «di qualsiasi squadra: davvero seguo poco il calcio, non so nemmeno quando il Napoli o la Salernitana abbiano giocato l’ultima partita», spiega il ragazzo prodigio di «Nu juorno buono», preparandosi ad una puntata di «Made in Sud» costruita intorno a lui, campione made in Sud a Sanremo come in classifica, cosa che è quasi un miracolo.
Con «don Aurelio» è già tutto chiarito: «Ci siamo sentiti al telefono, l’ho ringraziato dell’invito, poi gli ho spiegato le ragioni del mio inevitabile no. Non sono un tifoso, ho detto di no ad un invito simile della Salernitana, che però non era trapelato sui mass media. Un inno a ritmo di rap ci sta benissimo, l’idea è più che indovinata, ma lo deve scrivere un tifoso vero, penso a «Grazie Roma» di Antonello Venditti, come al Nino D’Angelo ragazzo della curva B. Io non sono ragazzo di nessun curva, non posso barare, pur essendo figlio di un maniaco del calcio, e in questo caso della Salernitana».
L’onestà di Rocchino ha conquistato De Laurentiis: «È rimasto prima spiazzato, poi felicemente sorpreso dalla mia risposta. Sa che la squadra merita una canzone che accompagni e propizi le sue imprese; da uomo di spettacolo, prima ancora che di sport, ha intuito che la colonna sonora della meglio gioventù italiana, non solo campana, oggi è scandita dalle rime hip hop. E, bontà sua, aveva puntato su uno scugnizziello di Salerno, a cui avrebbe perdonato anche una presunta infedeltà sportiva. Ma è stato felice, mi ha detto, di scoprire la sincerità con cui, ringraziandolo per l’invito, rifiutavo un incarico di prestigio».
Rocco Hunt, come dimostrato prima all’Ariston e poi nell’album «’A verità», ha «voglia di unire e non di dividere, di predicare l’unione che fa la forza e non il campanilismo, che pure soprattutto nello sport è sacrosanto. Solo che mentre gli altri si infervoravano per le imprese dei capocannonieri del San Paolo o dell’Arechi io da ragazzino impazzivo per le rime di capocannonieri come Nas, o per restare dalle parti nostre, come Clementino».
Eccolo, Clemente da Camposano di Nola, amico-fraterno, forse il primo a scommettere su di lui. È lui in pole position, a questo punto, per l’inno rap del Napoli? «Certo, anche se bisogna parlarne con lui. Io al presidente ho fatto il suo nome, insieme a quello di ’Nto, perfetti per costruire intorno a loro una sorta di supergruppo dell’hip hop newpolitano, un collettivo di tifosi rap all’altezza dela sfida. Sarà nu juorno buono quando l’inno rap del Napoli farà tremare il San Paolo e tutti gli stadi dove gli azzurri si troveranno a gareggiare. Sarà nu juorno buono per il calcio, per una città che merita di tornare capitale non solo di sport, ma anche di cultura e dignità. Sarà nu juorno buono per me e quanti altri sanno che valore sociale può avere il rap, soprattutto nelle terre disagiate, sofferenti. De Laurentiis l’ha capito, ha il fiuto del tycoon del cinema, in troppi, però, oggi credono che un flow sia identico all’altro, che un freestyle valga l’altro. Si sbagliano: l’accetto che si deve sentire al San Paolo è quello dei tifosi rap doc».
Fonte: Il Mattino
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