Più passa il tempo, da un quadriennio a questa parte, e più Maurizio Sarri incuriosisce, fa discutere, crea interrogativi. Si è arrivati a parlare di Sarrismo con una certa insistenza, per provare a spiegarlo. Qui ci chiediamo se il Sarrismo esista realmente, o meglio, se sia ragionevole parlarne. L’elemento chiave da mettere sotto la lente nel caso di Sarri è il personaggio prima ancora che l’allenatore. Viceversa, quando si parla di altre celebri filosofie calcistiche, come quelle riferite a Guardiola e Mourinho, la focalizzazione è principalmente sul gioco ben più di quanto non lo sia sul personaggio. Guardiola è il calcio propositivo, Mourinho è la solidità. Sarri è Sarri. Anche se in una dimensione professionale diversa l’esaltazione della persona sta su un livello separato, ed è qui che viene da pensare che forse il Sarrismo sia in qualche misura codificabile. Senz’altro il suffisso ismo sta a indicare un elemento di rottura, l’emersione di un qualcosa di nuovo, che prima non c’era e adesso c’è. E riflettendo a partire da questo presupposto gli elementi sono molteplici: il percorso di Sarri negli anni, la sua indole, il suo essere vecchio e nuovo allo stesso tempo, le sue debolezze così marcate. Moltissimo di lui – o almeno, di ciò che è nel calcio – ci invita a guardarlo come una novità, un corpo estraneo.
Rimanendo all’interno della dimensione-personaggio, Sarri è sicuramente un anti-sistema, e forse il più anti-sistema tra gli uomini di calcio in circolazione. Dove anti-sistema non significa semplicemente particolare, diverso, unico. È senza dubbio anche tutte queste cose, ma la sua identità anti-sistemica va oltre l’immagine che dà di se stesso nel mondo del calcio. È più profonda. Il suo rifiuto per ogni tipo di convenzione – dall’abbigliamento alle relazioni diplomatiche con il sistema, appunto – è sincero e soprattutto spontaneo, mai pilotato. Manifesta convinzioni sfacciate con una naturalezza che non solo resiste al confronto con quelle di Guardiola e Mourinho, ma in alcuni casi si porta anche su un piano superiore. La conferenza stampa poi divenuta celebre sui «diciotto uomini che possono fare un colpo di stato» ne è un esempio: Sarri è sicuro di sé come lo sono pochi altri, e in questo le sue origini svolgono un ruolo di primo piano. Ricorda da dove è venuto, sa di essere dov’è per merito, e pertanto non gli servono cuscinetti mediatici. Anche questo è un elemento di assoluto rilievo per la sua filosofia.
Se Sarri è anti-sistema, infatti, lo è anche e soprattutto perché del sistema non ha bisogno, perché ci è entrato dopo. Può anche permettersi di portare rancore sotto traccia a un calcio che lo ha capito e valorizzato con troppi anni di ritardo. È poi lecito chiedersi se questo atteggiamento, altra parte integrante e fondamentale del suo stile, sia per Sarri vantaggioso oppure no. In una ricca intervista di qualche mese fa, ad esempio, Michele Dalai optava per la seconda ipotesi: «Maurizio Sarri parla e si comporta come un grande offeso dal sistema calcio italiano. Dà sempre la sensazione di cercare la legittimazione che gli è mancata, e dal suo punto di vista questo è imperdonabile». Un altro dettaglio in grado di identificarlo come personaggio anti-sistema. In sostanza concede se stesso in un modo che lo renderà sì sempre fuori luogo, ma che allo stesso tempo contribuisce a issarlo su un vero e proprio piedistallo. Coerentemente con quanto già detto, a Sarri tutto questo interessa poco. Come non ha cura della propria immagine di tecnico, così è altamente probabile che abbia poca cura del suo essere anti-sistema. Diversamente da Mourinho, Sarri non fa mai polemica strumentale: non vuole alimentare il suo personaggio, che in un certo senso si alimenta da solo. La sensazione, talvolta, è che proprio per via del suo disinteresse verso il contorno (in alcuni casi un vero e proprio disprezzo) la percezione che ne ha sia ridotta. Che forse lui stesso non sia consapevole del valore mediatico del suo personaggio.
E poi c’è il Sarri tecnico: assolutamente sistemico, e in modo radicale. Il Sarri tecnico è fautore di un calcio che ha prima di tutto valore estetico, e per riprodurlo si serve di un’ossatura di principi definiti. Sono sempre gli stessi: controllo del campo e del pallone, baricentro alto, difesa vigile sulla palla prima che sull’uomo, fluidità nel cambiare il versante d’attacco. In questo ambito la sua originalità non sta tanto nell’applicazione di quei principi (che hanno radici più lontane) quanto nel fatto che è riuscito a renderla possibile modellando un capitale umano di livello più basso rispetto a quello di cui disponevano e dispongono i suoi antesignani. Sarri ha seguito le orme della rivoluzione dettata dal gioco di posizione riadattandole su canoni diversi. Ha creato Koulibaly e Jorginho, Hysaj e Ghoulam, Allan e Insigne, e li ha messi nelle condizioni di esprimere loro stessi al meglio nel suo sistema con una continuità impressionante. Non è certamente questa la discriminante decisiva per capire se parlare di Sarrismo sia ragionevole o meno, ma fa comunque la sua parte. Chi forgia un materiale di seconda o terza mano, in fin dei conti, non può essere valutato con lo stesso metro di paragone di chi lavora con le primissime scelte.
Quest’anno il suo Napoli ha mantenuto standard di prestazione praticamente invariati, calando appena in due periodi (intorno all’inizio di dicembre e tra marzo e la prima metà di aprile). Ciò che ci interessa di questa scansione temporale è un fattore soltanto: l’accettazione totale da parte di Sarri del calo. Alle critiche dei postpartita più scomodi, essenzialmente riferite ad una squadra che produceva gioco come e più di prima ma senza concretizzarlo, Sarri ha sempre risposto più o meno con le stesse parole. E con i numeri, ovviamente: a chi gli faceva notare che la squadra era più lenta spiegava che i test atletici della settimana suggerivano l’opposto, a chi lo accusava di spingere allo stakanovismo estremo i tre davanti diceva semplicemente che «brillanti o meno, devono giocare loro». Rara l’autocritica, mai con le spalle al muro. Sarri è un dogmatico, un lavoratore troppo appassionato per dare voce in capitolo nel suo mestiere ad altri al di fuori di sé. È uno che non cambia idea, o meglio, che non cambia idea in pubblico. Che se sceglie di adottare un accorgimento lo fa notare il meno possibile. E, che lo si voglia apprezzare o meno, in questo aspetto sono pochi gli allenatori che lo pareggiano.
Se il Sarrismo esiste, è sicuramente un paradigma non replicabile della contemporaneità calcistica. Ovvero, se gli elementi che identificano Sarri oggi sono sufficienti a parlare del suo ismo in maniera ragionevole, è certo che nessuno possa sognarsi di imitarlo. Però viene da chiedersi: e se la discriminante fosse proprio questa? Forse è ragionevole parlare di Sarrismo proprio perché è evidente che nessun altro allenatore si avvicini al suo stile neppure lontanamente. Può essere qui che staziona la differenza con Guardiola. Pep è ammirato, studiato, rivisitato continuamente; lui stesso a sua volta ha ammirato, studiato e rivisitato chi c’era prima di lui. Sarri appartiene al suo filone ma è diventato una cosa a sé, isolato in un certo senso. Oggi i derivati del Sarrismo non esistono e forse non esisteranno mai: non ha seguaci e nessuno gli somiglia perché nella sua definizione la componente personale, umana, è in prima linea come in quella di nessun altro. Magari si potrà trovare qualcosa di simile, in termini di approccio al sistema, guardando verso il basso; ma ai livelli che contano uno è ed uno rimane. Sarri non lascia intendere di aspirare ad influenzare il gioco e la sua evoluzione, di avere uno sguardo particolarmente lungimirante. È un rivoluzionario a modo suo, la rivoluzione la fa dentro le mura di casa. Che così rimbomba di più.
Fonte: Rivista Undici
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