Rivera: “Non mi diverto più con questo calcio, troppa forza e poca tecnica”

"Un ragazzo su 30000 arriva in Serie A, i genitori mettono troppa pressione"

L’Abatino adesso è un signore elegante coi capelli bianchi e lunghi. Gianni Rivera ha quasi 70 anni: li compirà il 18 agosto del prossimo anno. E’ stato campione, politico (anche sottosegretario alla Difesa), ha tentato di diventare presidente della Federcalcio (“non mi hanno voluto, non ci riprovo più”) e adesso è alla guida del settore giovanile e scolastico della Figc. “Sì, mi piace: in questi due anni abbiamo fatto buone cose”. Resta, per fortuna, lo stesso. Uomo libero: in campo (anni fa…) e anche fuori. Ha rappresentato un’epoca: l’Alessandria lo prese quando era ancora un bimbo gracilino di 13 anni, debuttò in serie A il 2 giugno 1959 che non aveva ancora compiuto sedici anni, primo gol a 17 anni, due mesi e 19 giorni (solo Amedeo Amadei fece meglio di lui), un’epopea poi col Milan e con la Nazionale. “Altri tempi: adesso è quasi impossibile vedere dei ragazzini in serie A 16 anni. Il calcio è cambiato molto”.

Non gli piace, quello di adesso. Perchè?
“Un gioco duro, subito, sin dai primi minuti della partita. Si privilegia la forza rispetto alla tecnica. Si vede calcio vero e proprio solo quando i calciatori cominciano ad essere stanchi… Chissà se si divertono?”.

Si diverte coi ragazzini: il settore giovanile e scolastico è in continua crescita (670.589 tesserati), Giancarlo Abete lo ha chiamato subito dopo il flop di Sudafrica 2010. C’era da rinnovare.
“Ci stiamo provando. Vogliamo dare un nuovo indirizzo. Con dirigenti e allenatori che siano dei veri maestri che aiutino i giovani calciatori nel crescere. I ragazzini hanno diritto a divertirsi e non diventare campioni…”.

Sì, dice proprio così, lui che è stato un campione.
“Il diritto di non essere un campione. Certo. Lo abbiamo scritto anche nella carta dedicata proprio ai bambini. D’altronde, le statistiche dicono che solo un ragazzo su 30.000 arriva in serie A. Ai miei tempi non so com’era, non c’erano queste statistiche. E poi vogliamo anche dare un premio al fair play. Come? Abbiamo studiato un cartellino verde che presto (da marzo 2013, ndr) sarà consegnato ai ragazzi delle scuole calcio, cioè quelli sino a 12 anni, che fanno un bel gesto in campo…”.

Ma ai genitori bisognerebbe dare il cartellino rosso…
“Già, in qualche caso purtroppo sì. Esagerano con le pressioni. Ha ragione Cesare Prandelli. Ripeto: non tutti diventano campioni, pochissimi arrivano in serie A. E allora che male c’è? Lasciateli giocare, lasciateli divertire. E lasciate che facciano anche un altro mestiere. Non si nasce tutti calciatori. E poi, proprio perchè vogliamo che i nostri ragazzi crescano sani, abbiamo fatto in modo che nel campionato allievi che non siano più i punteggi tennistici. Un 10 a 0 è umiliante per chi lo subisce, ma non è nemmeno educativo per chi fa tutti quel gol, magari si illude, si demoralizza… Insomma, non bene”.

Ci sono altri problemi da risolvere?
“Sì. Ad esempio molti ragazzi quando arrivano ai 16 anni smettono di giocare a calcio. Si stufano. Perchè? Perchè magari scoprono che non potranno mai sfondare a certi livelli. E allora, che male c’è? Si può continuare a giocare a calcio con gli amici, studiare o lavorare. E poi vogliamo uniformare le scuole calcio: in modo che ci sia un indirizzo unico per tutti. Un “bollino” da parte della Figc. C’è da lavorare ma gli iscritti crescono, ai ragazzini piace sempre il calcio. Facciamoli solo divertire: più tecnica, meno forza”.

Fonte: Fulvio Bianchi per Repubblica
La Redazione
C.T.

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