Una delle differenze, nella vita di Edy Reja, è che un anno fa lo mettevano in croce perché non entusiasmava alla guida della Lazio, mentre oggi lo rimpiangono e non solo per i quattro punti in meno in classifica o perché Petkovic nonostante una rosa più competitiva non riesce a fare meglio. Reja adesso è un tranquillo signore che può finalmente permettersi il lusso di guardare il calcio con occhi distaccati. E tutti continuano a dirgli bravo anche e soprattutto per quegli anni della rinascita del Napoli. È un tranquillo signore che si compiace della stagione della vela che ormai lassù, tra Trieste e la Slovenia, è iniziata, che sta programmando l’anno sabbatico tra qualche viaggio studio e i consigli che gli chiedono mega dirigenti, dirigenti semplici e addetti ai lavori. Non è che il ritrovarsi senza nemici lo abbia spiazzato? No, e poi erano nemici per modo di dire, imposti dai ruoli. «Io ho sempre difeso le mie squadre rischiando ovviamente sul piano dell’immagine. All’interno del gruppo dicevo le verità a muso duro, se necessario, ma all’ esterno ero come uno stopper».
Sette anni fa la promozione dalla C1 alla B: cosa prova oggi nel vedere il Napoli secondo in classifica lanciato verso la Champions?
«Orgoglio: ho fatto parte di quella squadra e di quel club. Soddisfazione: ho lavorato e condiviso una grande idea di calcio. Ho ricordi eccezionali per una così bella città, per chi mi ha stimato e per quei ragazzi che vestono quella maglia e che hanno lavorato con me. Tutto quanto realizzato dal Napoli è frutto di una crescita costante, affidata a un presidente che sa bene quello che fa e che punta a migliorare sempre ogni suo progetto. Ho visto partite che mi hanno esaltato, come quelle dell’anno scorso in Champions. Prestazioni contro il City, il Bayern e il Chelsea che hanno onorato il nostro calcio all’estero. Certo ci sono stati anche momenti difficili, in cui si è pagato lo sforzo del fare troppo. Magari le energie si sono perdute anche per lo stress da prestazione. L’importante è tornare subito a galla, come ha dimostrato di saper fare il… posso dirlo? Il mio Napoli».
Perché si interruppe quel rapporto nel 2009?
«Finì un ciclo, ne fui consapevole. Così come lo fu De Laurentiis. Decidemmo insieme di interrompere il cammino. Suggerii di separarci a campionato in corso. Se dovessi definire quanto accaduto, parlerei di esonero pilotato. Perché ti accorgi quando c’è bisogno di svoltare, quando bisogna svegliare una squadra sprofondata nel torpore agonistico. Le esperienze calcistiche sono bellissime ma come ogni cosa della vita vanno a esaurirsi, l’importante è conoscere la via d’uscita».
Sta fornendo un assist a Mazzarri, assertore della necessità di fermarsi un po’ per riflettere?
«No, tutt’altro. Capisco che a Napoli c’è grande attenzione e tensione intorno alla squadra. So bene delle critiche pretestuose e di chi attacca per il gusto di farlo. Ma succede dovunque. Ecco perché a Mazzarri dico: se puoi, continua. Perché quello che ti trasmette Napoli e quello che può offrirti in prospettiva un club come il Napoli non lo trovi da nessuna parte».
Come spiega la ”fedeltà” che De Laurentiis ha dimostrato nei confronti di due allenatori, prima lei e poi Mazzarri?
«Con il presidente ho avuto veri e propri scontri. Tuttavia la sua forza è non essere rancoroso. Ci si confronta anche con tono duri, poi si ritorna insieme, perché lui ha una capacità di trascinarti nei suoi progetti che è unica al mondo. È in egual misura incazzoso e affabile. Aver scelto allenatori di lungo periodo credo sia il suo riconoscimento verso personalità forti e di principio, certamente diverse, come siamo io e Mazzarri, ma di carattere. Come dire? Le gatte morte non sono il genere che piace a De Laurentiis. Nel Napoli si cresce e si progetta perché c’è democrazia conflittuale».
Si rivedrebbe in un ruolo nel Napoli? E in quale?
«Con De Laurentiis ne parliamo per cercare di trovare una collocazione. Lui mi dice: ma che fai lontano dal tuo club? Qui c’è sempre una porta aperta per te. Io, però, voglio ancora allenare e vorrei aspettare per intraprendere un’altra carriera. Terminato il mio anno sabbatico mi farebbe piacere tornare in panchina. Proposte? Sì, anche dall’estero, mi interessa ripartire da un altro paese».
Di cosa parla con De Laurentiis?
«Nulla di specifico. In generale di calcio, di prospettive per questo nostro mondo del pallone, di futuro dei club, non solo del Napoli».
Qual è il top player che lei indicherebbe per sostituire eventualmente Cavani?
«Nessuno. Edinson è un calciatore irripetibile. Aiuta in difesa, recupera a centrocampo, in fase d’attacco possiede tempi d’inserimento e fiuto del gol. Non esistono punte moderne come lui. Nel Palermo giocava arretrato, Mazzarri lo ha inventato terminale offensivo, dandogli ampia libertà di movimento e lo ha reso elemento cardine in un attacco che ha avuto anche Lavezzi e tuttora ha Hamsik. Trovo ozioso discutere sui dettagli: Cavani è punta centrale o seconda punta? A me non interessa, è un ragazzo che non ha paura di nessuno e che può risolvere qualsiasi partita in qualsiasi momento. Ha un fisico eccezionale, da bomber anglosassone, con una spruzzata di fantasia sudamericana».
Si parla dei giovani per riportare il calcio italiano in alto: è una strada che deve seguire anche il Napoli, visto che in Campania c’è da attingere a risorse vastissime?
«È la strada giusta, già intrapresa dai grandi club. Col vantaggio che a Napoli come a Roma, me ne sono accorto stando alla Lazio, esistono enormi serbatoi di talenti. Insomma, questi ragazzi li trovi sotto casa. È un enorme vantaggio, perché non c’è bisogno di sondare il mercato estero, si evita così un grande dispendio di energie. Mi accorgo che ci sono giovani interessanti nel Napoli Primavera: da Tutino a Fornito, da Crispino a Insigne, da Palmiero a Nicolao. Ricordo che io ho fatto esordire Sepe, il portiere ora a Pisa, che a giugno dovrebbe rientrare a Napoli. Vorrei dare un consiglio a questi ragazzi: mai arrabbiarsi per un 5 in pagella, anzi diano più retta alle stroncature che agli elogi. Si è tutti bravi, da giovani, poi va avanti solo chi ha più carattere».
E cosa consiglia a quelli della Juve che hanno insolentito il pubblico nella finale di Coppa Italia?
«Le colpe vanno a chi dovrebbe istruirli, non solo nel calcio. Non bastano le strutture e gli investimenti. S’è persa l’etica dello sport e lasciare che la si perda già quando si è giovani può diventare un male incurabile».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
P.S.
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