All’incrocio col destino. Col pallone calciato dal basso verso l’alto. Come la metafora della sua vita: tutta in salita. Sacrificio, fatica e dolore. Gli infortuni, tanti e seri. Mamma Mara morta quand’aveva appena 13 anni. E il sudore di papà Sergio, il suo riferimento, il “numero uno” della famiglia Cabral Barbosa, l’uomo che l’ha incoraggiato, spinto e tirato su, da solo, fino a sotto la traversa. Là, dove Rafael a mano aperta, s’è preso il Napoli.
La notte più lunga. Centoventi minuti più i rigori, la sua specialità. Ci passava le ore a fine allenamento quand’era al Santos. Lui tra i pali, l’amico Neymar sul dischetto. Undici metri di amicizia. E allenamenti straordinari. Gli altri già sotto le docce, loro lì a fino a che non facesse buio. E’ così che Rafael è diventato il pararigori. Istintivo, tecnico e guascone. Irridente con chi calcia. Un po’ Grobbelaar, un po’ Dudek: entrambi ex Liverpool. E tutti e due decisivi in una finale di Coppa dei Campioni: a Istanbul, contro il Milan, c’era proprio Benitez sulla panchina…
Rafael il timido che fa il “guappo”. Si muove sulla linea di porta, saltella, agita le braccia, distrae chi tira, indica un angolo e lo battezza, spesso bluffa e aspetta. E quando si tuffa, se non la prende, sono occhiatacce e gestacci. E’ così che va, e lui lo sa. A Doha, qualche sorrisino ironico, gli è toccato. Ma ha gioito lui.
IL VOLO. Padoin l’aveva messa di forza e precisione. Una botta a incrociare, alta e tesa. Lui era però là. Immobile, stavolta. Fino al tiro. Poi il balzo. In un attimo è volato. La parata più bella. Ha anche postato il video sul suo profilo Twitter. Rafael da mille e una notte. Sceicco napoletano. Il rospo diventato principe azzurro contro quella Juventus battuta diciannovenne col Santos in un torneo giovanile a Torino. Storie che tornano e si intrecciano.
Rafael criticato, sotto pressione, schiacciato. Mugugni, insofferenza e anche il tifo plateale per Andujar. E invece, la Supercoppa, l’ha presa lui. L’ha stretta coi guanti, a mano larga. Col braccio di richiamo. Rafael più di Buffon per una volta. Ha parato (quasi) tutto. Sicuro, piazzato, padrone dell’area e della situazione. E poi sereno, come sempre. Con la forza di chi ha fede.
LA FIDUCIA. Rafael “ora et labora”. Che per lui è prega e para. Lo fa prima e dopo ogni partita. E di fatto a ogni presa. Guarda il cielo, alza il dito, ringrazia “Nossa Senhora de Aparecida”. Trova coraggio e ispirazione. Il rigore di Padoin il momento infinito. Concentrazione, intimità col suo essere e voglia di arrivarci. E gioire. Mesi di patimenti e musi lunghi: degli altri.
Lui ci ha sempre creduto. E così anche Benitez: Rafael il titolare indiscusso. Nonostante l’operazione ai legamenti, la riabilitazione in Brasile, il sudore per tornare se stesso e l’ombra lunga di Reina: opprimente. Paragoni e confronti continui, sin dal ritiro di Dimaro. «E’ giovane, non ha esperienza». Un tormentone. Pure se in Brasile è per tutti l’erede di Marcos, il suo idolo. Pure se è stato il più giovane portiere di sempre a vincere la Libertadores. Pure se s’è fatto grande passando per il calcio a 5, il ruolo di centrocampista e già la Seleçao brasiliana.
“Però Reina…”. E invece Rafael, comunque Rafael, e per altri tre anni e mezzo ancora. Lui nonostante le incertezze, i tentennamenti in uscita e la porta che d’improvviso sembrava enorme. Ogni tiro, un gol. Le traiettorie più beffarde. Pallone viscidi, sporchi, spesso (im)prendibili. Almeno fino a Doha.
Lì, a “muralha do’ Santos”, ha alzato il muro col passato. Il Napoli è ora nelle sue mani.
Fonte: Corriere dello Sport
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