Chissà cosa passava nella testa del toscano, che aveva sfiorato come al solito il volto di San Gennaro ai piedi dell’ultima rampa di scale prima di ritrovarsi sul terreno di gioco che conosce così bene, salutando uno striscione grato e politicamente corretto della curva B e ignorando i fischi che generosamente gli tributava il resto dello stadio. Chissà cosa passava nella testa dello spagnolo, al cospetto di quei colori nerazzurri che erano stati il suo primo, sfortunato approccio con l’italico pallone, quando aveva avuto l’ingenua arroganza, almeno così si dice, di staccare ogni foto di Mourinho dalle pareti della Pinetina. Non venite a dirmi che era una partita come le altre, per i due scafati trainers che pure in carriera tante ne hanno viste e tante ne vedranno, avendo scelto un magnifico e difficilissimo mestiere fatto di dubbi tattici e di traballanti sedili, precari d’oro, provvisori di platino. Stavolta no, stavolta è stato tutto diverso. Che avrebbe dato l’uomo di San Vincenzo, in provincia di Livorno, per vedere farsi di colorito verde quel presidente con cui completamente d’accordo non è andato mai; per fargli vedere che tutto il bene che la squadra ha fatto negli ultimi anni era in fondo questione di manico, e che il manico era il suo. Gli sarebbe piaciuto e tanto, a Mazzarri, sentire toni di rimpianto e di rammarico per la sua solida difesa, per le famose ripartenze nobilitate dal Matador, il re Mida del suo Napoli; e avrà pensato di poter approfittare della gentile assenza dei due migliori interpreti del suo periodo azzurro Cavani a parte, carinamente infortunatisi per non giocare contro il proprio mentore. Avrà creduto, Mazzarri, di poter dimostrare con chiarezza al mondo partenopeo che la sua scelta professionale era stata più che motivata, e che l’Inter costruita, per la prima volta da una dozzina d’anni, con mezzi limitati, poteva comunque venire a fare una bella figura. Per carità, con quel simpatico accento livornese dice che questa era una semplice partita di campionato come tutte le altre, avendo in palio tre punti proprio come le altre; e che se l’arbitro non avesse espulso con tanta facilità Alvarez, per carità, io non parlo mai degli arbitri, ma stavolta vorrei proprio dirlo, se non ci fossero stati i due cartellini la partita era tutta da giocare. E vorremmo poter assistere al sonno dello spagnolo suo collega, stanotte, senza chiacchierare col cuscino magico ma con un bel sorriso stampato sulla faccia; perché anche se non è più Moratti il presidente nerazzurro, avendo lasciato il posto a un bambolotto indonesiano che sembra incline al calcio quanto lo stesso Benitez alla danza classica, qualcuno in casa interista magari starà pensando che forse gli andava dato un altro po’ di tempo, perché in fondo è lui che ha collocato in bacheca l’ultimo trofeo, il mondiale per club. Incroci di uomini e di passioni, uno che ha vinto e uno che ha perso, tre punti che prendono una strada e non l’altra; poco male se i tifosi hanno assistito a una partita strapiena di errori, con due difese approssimative e incerte, col festival del liscio e squadre lunghe e sfaldate come la crisi economica. Poco male se, tra reti realizzate e occasioni sprecate, sembrava un match di boxe tra due pugili suonati che pensano a colpirsi senza difendersi. Questa non era la notte della tattica. Questa era la notte delle grandi passioni, e così doveva andare. Tanto, avrà pensato Mazzarri, c’è sempre la gara di ritorno. Ma là al Meazza, caro Mazzarri, non c’è nessun San Gennaro da accarezzare.
Fonte: Il Mattino
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