Sulla sua Nazionale non ci sono ombre. E con la qualificazione ai Mondiali già conquistata, Cesare Prandelli vive serenamente la marcia di avvicinamento al Brasile. Danimarca e Armenia non possono togliergli il sonno. E allora pragmatico come tutti quelli della sua terra contadina e leader incontrastato di un gruppo che sta forgiando a sua immagine, il ct azzurro si confessa e ammette l’emozione per l’allenamento a Quarto della sua Italia e la rabbia per la chiusura dello stadio di Milano per i cori contro i napoletani. Prandelli, la Nazionale va lunedì a Quarto sul campo della squadra antiracket.
Un’altra pagina indelebile della sua gestione? «Ha un significato importante andare lì, allenarsi su un campo confiscato alla camorra, farsi vedere dai bambini del posto su un terreno di calcio che è sempre un posto magico. È un segnale, una testimonianza, un modo per non tirarsi indietro e nel nostro piccolo dire: “Ecco ci siamo anche noi in questa lotta per la legalità”. Ne ho parlato con i magistrati della Dda (Antonello Ardituro, ndr) l’ultima volta che sono stato a Napoli e ho percepito l’importanza che anche loro danno alla nostra presenza. Io non so molto di camorra o mafia, ma mi hanno colpito le parole di don Ciotti in Calabria quando applaudì la nostra presenza a Rizziconi parlando del potere dei segni contro i segni del potere mafioso. Ecco, se serve, noi siamo sempre pronti».
Non è poco. A Quarto porterete un messaggio di ribellione contro la camorra. «Andiamo a Quarto sapendo che la gente ha bisogno di immedesimarsi nella Nazionale che è la squadra di tutti, la squadra degli italiani. E in questo siamo stati al passo con i tempi. Noi non possiamo permetterci di vivere in una torre d’avorio ed è per questo che non ci siamo mai sottratti a qualsiasi tipo di invito. Pur sapendo che si trattava e si tratta di qualcosa di impegnativo, ma anche di significativo. Come è allenarsi sul campo della squadra che prima era di proprietà di un boss e ora non lo è più».
Per questo siete stati a Rizziconi ma anche ad Auschwitz e Medolla? E probabilmente andrete a Lampedusa? «Non mi piace la retorica. Ma ogni volta, dopo una esperienza di questo genere, sono io a ringraziare chi ci ospita per l’entusiasmo straordinario che incontriamo, per tutto quello che in termini di emozioni è in grado di donarci. Ed è per questo che, se ci verrà chiesto, andremo pure a Lampedusa».
Capitolo razzismo. C’era bisogno di chiudere lo stadio di Milano per mandare un segnale forte ai tifosi? «In tutta sincerità penso che quando viene chiusa una curva o addirittura uno stadio intero per dei cori contro qualcosa o qualcuno sia una sconfitta per tutti».
Ma tra i “buuu” a Boateng o a Balotelli e il ritornello “noi non siamo napoletani” per lei c’è differenza? «Non lo so. Ho sempre pensato che ci volessero dei gesti forti, ma quando si decide di giocare a porte chiuse una partita è una sconfitta per tutti ed è doloroso che questo avvenga. È l’ennesimo esempio che deve spingere il nostro calcio a riflettere: non esiste alcuna forma di rispetto, si continua a tifare contro qualcosa o qualcuno perché non c’è rispetto, mentre altrove si tifa semplicemente per i propri beniamini e per la propria squadra. Senza bisogno di insultare gli avversari».
Lei, però, una volta disse che servivano gesti forti contro il razzismo: il gesto forte è arrivato. «Servono gesti forti di tutti e dobbiamo essere forti e decisi nel dire basta. Ma non so se chiudere uno stadio sia la decisione migliore. E non tocca neppure a me dirlo. Ma ripeto la mia sensazione che è quella che abbiamo perso tutti, perché questa decisione ferisce chi vive di calcio».
Tra nove giorni Roma e Napoli si sfideranno per il primo posto. Anche qui, quante polemiche. «E anche qui, quanto fa male pensare e sapere che un match di questo tipo debba portare con sé dei timori per l’ordine pubblico, la paura che chissà cosa possa succedere prima o dopo la gara. Non mi va di dire se sia giusto o meno anticipare la partita, sono certo che chi ha deciso ha fatto la cosa giusta. Mi amareggia la ragione che è all’origine della decisione. Tutto qui».
Siamo messi male, insomma? «Come d’altronde il nostro Paese. Ma ci sono margini per risalire».
Immaginava di vedere la Roma prima in classifica? «Merito di Garcia, ha ricostruito un gruppo che era devastato moralmente dalla sconfitta nella finale di Coppa Italia con la Lazio. Io sono stato calciatore e so cosa significa rosicare ogni giorno uscendo di casa per qualcosa andato storto, so che appena puoi deve scattare in te qualcosa in più. E lui è stato abile a lavorare su questa leva dell’orgoglio che fa in questo momento della Roma una delle squadre migliori del nostro campionato».
E Benitez? «Beh, lui è un vincente, lo è nel Dna e viene in Italia con questa etichetta ben precisa. È uno che vuole vincere, ma che vuole farlo giocando a calcio. E il suo calcio inizia dal rinvio del portiere. Senza dubbio un gran bel Napoli quello che stiamo ammirando in questo inizio di stagione».
Diverso da quello di Mazzarri, dunque? «Anche il suo è un gran calcio. Le sue squadre, come l’Inter adesso, hanno sempre la giusta applicazione e concentrazione. E le ripartenze di Walter sono capaci di spaccare gli avversari come pochi altri».
Garcia e Benitez primo e secondo dopo meno di due mesi dall’arrivo in Italia. Anche in panchina trionfa lo straniero, dunque? «Sono venuti qui senza avere pregiudizi, con la mente libera, distaccati: non hanno ancora avuto il tempo di farsi contaminare dal nostro calcio. E hanno portato una ventata di nuovo che fa bene al nostro campionato. I ragazzi che ho con me sono entusiasti delle loro idee, del loro modo di porsi, della continua ricerca del dialogo e della loro capacità di essere schietti. Ad allenatori così non puoi che dare il benvenuto».
Però Rafa di italiani in squadra ne ha davvero pochi. Sotto questo aspetto, non aiuta. «E mica solo lui… Ma questo è un vecchio problema: tanti club preferiscono prendere giocatori all’estero piuttosto che avere la pazienza di valorizzare quelli dei vivai o che vengono dalla serie B. Ma non bisogna criticare».
Sembra sereno, insomma? Ride: «La prendo con filosofia: così ho meno giocatori da vedere ed è più facile per me fare delle scelte». A proposito: porta Insigne in Brasile? «Lorenzo sta facendo davvero molto bene con Benitez, continua a crescere con costanza e io continuo a convocarlo. Il Mondiale è ancora lontano, però».
Non è che Totti rischia di fare lo sgambetto al napoletano? «Io deciderò tutto a maggio, quando vedrò la condizione fisica e sceglierò gli attaccanti anche in base ai gol che avranno fatto durante la stagione. Se Totti starà bene come adesso, verrà in Brasile. Su questo sono stato chiaro. Con Garcia ha ritrovato equilibrio, è tornato a giocare nella stessa posizione in cui lo faceva giocare Spalletti: in quella zona del campo si esalta. E poi è motivato, ha stimoli: uno come Francesco non può che darci una mano».
Chi è il più forte straniero della serie A? «È Marek Hamisk. Mi fa impazzire la sua completezza, la sua voglia di sacrificarsi, il suo rendere sempre semplice anche le cose complicate. E poi è uno di quelli che non dice mai al proprio allenatore: “Questo non è il mio ruolo, non lo faccio”. Macché, fa ogni cosa gli venga chiesta. Anche a costo di dare la sensazione di non giocare bene perché magari deve correre dietro all’avversario. Lo ricordo giovanissimo al Brescia piazzato prima davanti alla difesa, poi all’esterno, poi a centrocampo e sempre con il risultato di essere il migliore in campo. Peccato che giochi nella Slovacchia e non abbia neppure un avo italiano…».
La Nazionale martedì torna al San Paolo dopo sette anni di assenza. «Napoli vive il calcio in maniere unica e stupefacente. Io non ho mai visto un pubblico così appassionato e così vicino alla propria squadra come quello napoletano. È una partita contro l’Armenia, abbiamo già conquistato la qualificazione, ma spero che ci sia tanta gente a vederci».
Un viaggio nei suoi ricordi. Vediamo se le viene in mente dove ha vinto il primo scudetto della sua carriera? «Era il maggio del 1981 e vincemmo al San Paolo grazie a un autogol. Napoli-Juve 0-1, anche se non so se fu proprio quel giorno che facemmo festa… La notte prima però fu un incubo: per non farci dormire c’era un carosello interminabile di auto che suonava il clacson sotto le finestre dell’albergo sul lungomare. Verso le 2 del mattino ci fecero cambiare stanze e ci spostarono all’ultimo piano. Tutto inutile: neppure lì riuscivamo a chiudere occhio. Un dramma. Trapattoni si infuriò. Finché all’alba decisero di chiudere la strada con le camionette della polizia e finalmente prendemmo sonno. I tifosi del Napoli sono unici per questo».
Corsi e ricorsi: anche quella stagione la corsa per il titolo fu tra Juve, Roma e Napoli. «Ma quest’anno è diverso. Per la gioia di tutti, sono almeno in sette ad essere competitive per lo scudetto. E tra queste metto anche la Lazio e la Fiorentina che sono certo non molleranno così presto».
Perché è la Juve la sua favorita? «Perché ha l’abitudine a lottare su più fronti, ha un gruppo che si conosce bene e che è stato rafforzato con grande abilità. Poi finora ha pareggiato una sola gara e in casa dell’Inter. Quindi…».
Ma perché sia la Juve che il Napoli quando vanno in Europa soffrono? «Perché lì ci vuole un pizzico di genialità in più per sopperire al fatto che i club inglesi, tedeschi e spagnoli hanno qualcosa in più. E bisogna riconoscerlo».
Vista così, è un miracolo l’Italia vice campione d’Europa? «Abbiamo fatto tanto, lavorando sulle qualità e sulla generosità dei singoli. Al Mondiale saremo ancora protagonisti. Per la gioia di tutti».
Ricorda quel cameo nel film di Natale di De Laurentiis? «Per carità, feci una fatica immensa. Non è proprio il mio mestiere quello. Mentre il presidente ha capito bene come si fa il calcio: sono sicuro che il Napoli con lui vincerà come mai nessun altro presidente nella storia del club azzurro».
I tifosi del Napoli faranno gli scongiuri leggendo questa sua dichiarazione. «In effetti… Per questo non ho pronunciato quella parola».
Fonte: Il Mattino
La Redazione
S.D.
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