Il tormento è un flash: la palla sul dischetto, la testa alta, fiera, per scrutare Sportiello, la scelta (ondivaga) di mirare all’angolo, stavolta quello alla sinistra del portiere. Poi, pum, si ode (ma si vede) la deviazione, s’avverte la fitta e si pensa che, maledizione, è andata (male) pure stavolta, come con il Chievo. Il giorno dopo è elaborazione del dolore, la domanda che rinasce fastidiosa (e la prossima volta, tiro o lascio?) e una solenne malinconia da scacciar via: c’è la Roma, per fortuna (per fortuna?) e meditare non si può, essendosi il frullatore della memoria pronto a demolire ogni residuo spiffero.
POKER. Ma poi come si fa a parlar di crisi d’identità, quando appena un istante prima, su quel pallone piovuto dal piedino di Insigne, il Pipita ha fatto ciò che meglio gli riesce: la porta alle spalle, l’avversario incollato addosso, una mezza veronica e via, quarta rete in due giornate, lui ch’era rimasto all’asciutto per otto domeniche? Ma il minuto novantatré di Atalanta-Napoli è lo spartiacque tra Gonzalo e Higuain, il dottor Jekill e il mister Hide che in una manciata di secondi s’avvicendano nel vecchio «Brumana», prima (si) esaltano e poi (si) deprimono: è il calcio e a Castelvolturno.
REAGIAMO. L’Higuain che a San Siro, ad un certo punto, stufo di starsene da solo, incita i compagni e platealmente li trascina fuori dalla loro metà campo, resta ingabbiato nel ricordo per un bel po’, trascorre la serata immusonito, poi sa bene come vadano certe storie, quando sei con la testa nel pallone: bisogna rialzarsi ed in fretta. Quando sbagliò con il Chievo, gli vennero concessi i quattro giorni: e, sistemato il pallone sul dischetto, provvide subito a riprendere lo Sparta Praga proprio con la stessa modalità con la quale aveva lasciato scappar via i veronesi.
IL DOPPIETTISTA. E poi un anno fa, subito dopo l’exploit di Marsiglia, ma nel bel mezzo d’un «caso» sorto intorno ad un presunto suo malanno fisico, fece la stessa scelta dirompente: era Napoli-Torino, si giocava a mezzogiorno, faceva un caldo…., ma quando sentì il fischio dell’arbitro e capì che gli restavano undici metri, scelse la potenza, angolata o centrale, non ebbe dubbi, né perplessità, non tremò – perché non gli succede quasi mai, pure quando sbaglia – e si riprese il palcoscenico che a Bergamo gli è mancato sotto ai piedi, come quei due punti che sarebbero valsi il podio del campionato sul quale rilanciarsi rapidamente.
PERO’ SONO SETTE . Il «caos» è in questa condizione contradditoria, figlia di quello scarabocchio da due punti a Bergamo, però le statistiche, che pure valgono qualcosa, sottolineano che rispetto alla passata stagione, el Pipita non sta poi messo così male: alla nona, aveva segnato cinque reti in campionato, una in più di questa tornata, nella quale ha sciupato due rigori (e un gol con il Torino quasi in stile-Callejon); in Europa, dopo cinque partite, era a quota tre; e adesso, tra l’Athletic Bilbao e l’Europa League, s’è ripetuto. La differenza è negli undici metri ed ha «stravolto» un andamento, trasformando un dato altrimenti positivo nella negatività d’una atmosfera che tradisce l’ansia di ripartire, subito, con la Roma: perché il niño non avrà (non avrebbe) paura di (ri)tirare un calcio di rigore.
Fonte: Corriere dello Sport
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