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Pesaola: “Napoli-Fiorentina, vorrei che non finisse mai: vi racconto i miei trionfi con questi due team”

Il Napoli che vinse la Coppa Italia del ’62: «Una squadra leggendaria». La Fiorentina campione d’Italia del ’69: «Una squadra perfetta». Nell’appartamento di via Manzoni, Bruno Pesaola guarda la Napoli che si affaccia verso i Campi Flegrei e lo stadio di Fuorigrotta e accarezza i suoi ricordi. Li sfiora uno a uno, come fossero petali di un fiore incantato. Parte da lontano, nel racconto. O da vicino. Parte da Napoli, otto anni da giocatore, sette da allenatore. E passa per Firenze. «Napoli-Fiorentina? Penso che alla fine sarà il Napoli a vincere la Coppa Italia ma in realtà vorrei che fosse una partita che non finisse mai».

Pesaola, estate del 1968. Arriva il momento di lasciare Napoli dopo 16 anni.
«Ero arrivato secondo e avevo capito che dovevo andar via perché la gente voleva lo scudetto e sapevo che era impossibile ottenerlo. E non mi andava di deludere quell’attesa spasmodica del popolo azzurro. In fondo un po’ come ha fatto Mazzarri l’anno scorso».

A Firenze, come a Napoli, la ricordano con immutata riconoscenza.
«Non c’era una lira. Per sistemare il bilancio vendono Albertosi, Bertini e Brugnera e come unico acquisto mi concedono Bandoni, che avevo avuto con me al Napoli. Pretesi che Amarildo non si muovesse. Dicevano che era intrattabile e in più aveva una sorella che gli faceva da manager e nessuno la sopportava. Il presidente Baglini mi ascoltò e nacque il capolavoro viola».

Segna poco quella Fiorentina, solo 38 gol, ma perde una sola partita.
«Incassammo 18 gol in quella stagione. Perché da quando sono in Italia, dal 1947, non ho mai visto una squadra vincere lo scudetto avendo una difesa che prende tanti gol. C’erano Rogora, Mancin, Brizi, Ferrante, Esposito, De Sisti che faceva girare alla perfezione la squadra. Tutti fenomenali. Poi c’era Maraschi, un furbone. Ma Amarildo era fantasia, geometria, generoso, straordinario. Solo con Chiarugi ebbi qualche problema iniziale: lui era il pupillo del presidente ed era convinto che le sue giocate fossero più importanti del risultato. Gli spiegai che la gente si divertiva solo se le sue giocate servivano per ottenere il risultato».

Torniamo indietro nel tempo: 1952. Il suo arrivo a Napoli.
«Decise mia moglie, io avevo anche il Milan che mi voleva prendere dal Novara, dove ero finito dopo l’infortunio alla Roma. Disse: ”Là c’è il sole, fa caldo, c’è mio fratello che lavora alla Siae di Pozzuoli”. Basta con la neve, la nebbia».

Fra campo e panchina col Napoli ha totalizzato 531 partite di cui 240 da giocatore.
«Alla Roma dovevo far fare gol ad Amadei, al Novara a Piola e al Napoli prima a Jeppson e poi a Vinicio. Da ala sinistra segnavo poco ma un mio gol a San Siro nell’angolino alto della porta dell’interista Matteucci fu la sigla della “Domenica sportiva” per anni».

Poi diventa nel ’62 allenatore del Napoli?
«Cominciai ad allenare la Scafatese in serie D. Il presidente mi anticipò tutto l’anno di stipendio e io accettai: esordio contro l’Avellino e vittoria. A metà campionato arrivò il Napoli che con Bardi era quart’ultimo in serie B. Il comandante Lauro mi convocò nella sua villa e mi propose la guida degli azzurri. Gli risposi che non avevo il contratto a Scafati ma che avevo dato la mia parola. Allora prese il telefono e chiamò Romano, il presidente della Scafatese, e si accordarono».

E iniziò la sua avventura da allenatore al Napoli?
«Una scalata incredibile che culminò con la vittoria a Verona per 1-0 con la rete di Corelli. Eravamo felicissimi. Pure il comandante lo era perché sicuro che quel successo gli avrebbe permesso di essere rieletto sindaco. E invece il giorno dopo perse le elezioni. Mai visto così infuriato. E si vendicò non comprando nessuno nonostante nel frattempo avessimo battuto la Spal all’Olimpico nella finale di Coppa Italia. Unica squadra di B a farlo: la città ci accolse entusiasta in piena notte. Ma io non c’ero: ebbi paura e tornai con la mia auto perché per la promozione il troppo amore dei napoletani quasi mi fece svenire».

Cosa vi regalò Lauro per quel trionfo?
«Niente di niente. Neppure una lira. Era usanza dare delle medagliette ricordo in caso di promozione e di successo in Coppa. Il comandante, per risparmiare, ne fece solo una: da un lato la coppa e dall’altra il campionato».

Le dispiaceva quando la definivano un difensivista?
«No, mi metto a ridere: con me giocavano insieme Canè, Juliano, Altafini, Sivori, Barison con Ronzon era il libero-fluidificante. Con questo attacco, secondo voi, mi difendevo? Più o meno come fa Benitez adesso».

Della Valle e De Laurentiis quanto differenti dai presidenti di Napoli e Fiorentina del passato?
«Anni luce. Quelli di adesso sono imprenditori e manager, quelli dei miei tempi personaggi romantici, quasi poetici. Ma trattare con Lauro era di una fatica incredibile anche perché non manteneva quasi mai la parola data».

La Coppa Italia del ’62 e lo scudetto del ’69, tutte al primo anno. Quale il segreto?
«Prendere in pugno lo spogliatoio e farsi rispettare subito. Io da allenatore ho sempre dato del lei a tutti i giocatori, anche quelli con cui avevo giocato. Solo a Sivori consentivo di darmi del tu quando eravamo da soli».

Il secondo scudetto fu la salvezza del Napoli nel 1983?
«Arrivai e Diaz si fece male al primo allenamento. Castellini mi disse che era inutile che fossi lì perché erano già retrocessi. Un miracolo, quella salvezza fu un miracolo».

Lei è argentino come Sivori, Maradona, Higuain. Perché Napoli è così speciale per voi?
«Vada a Baires, nei quartieri colorati e pieni di luce e avrà la risposta. E poi in Argentina si dice che vale più un amico di un fratello. E io all’affetto dei napoletani non sono mai riuscito a rinunciare».

Fonte: Il Mattino

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