Le lacrime che inondando l’Olimpico e trasformano il calcio in una pagina da libro «Cuore» in chiave napoletana rappresentano la dichiarazione d’amore, accada quel che accada, d’un uomo che s’è concesso per cinque anni e ora è lì, travolto dall’emozione, in preda ad una crisi di pianto, a riprendersi la «sua» città per una notte, mostrandole quel che c’è dentro uno scugnizzo come gran parte dei trentamila che ora l’abbracciano simbolicamente. «Pocho, pocho» . Il Lavezzi ubriaco, stordito, poi scatenato che sale sull’inferriata commosso e senza freni inibitori, quell’indiavolato che sta urlando al cielo il suo senso d’appartenenza per la Napoli che ne ha fatto un idolo e ora il totem di quella folla che ha rimosso l’amarezza per un probabile divorzio e che ora non ha occhi e cori che per lui. La serata delle stelle è la sua nottata tormentata, persa tra gli abbracci di chiunque, innanzitutto di Cavani e Hamsik, i tenori d’una favola struggente: alle 22.22 – come se il destino avesse voluto scegliere seguendo l’ispirazione d’una maglia, la magia è nel senso di distacco che si compie, perché quel saluto ai soci della premiata ditta del gol con i quali ora si potrà festeggiare bevendo dalla coppa Italia, sa di addio. Il suo grazie è in quella sfilata lenta he è ispirata dagli affetti, dalla ricerca di Zuniga, la sua anima gemella con la quale s’è divertito un sacco, dall’abbraccio con Mazzarri che lo bacia come si farebbe con un figlio al quale non puoi non volerb bene anche se ti ha fatto arrabbiare.
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