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Pecchia: “Orgoglioso di poter lavorare con Benitez”

E’ il tempo che scorre via veloce: e in un ventennio, c’è la sintesi d’una esistenza tinteggiata d’azzurro, fotogrammi che s’accavallano e inducono a rievocare se stessi. «Certo che sono felice, ci mancherebbe. Lo sono e tanto. Non avrei mai detto di tornare qua, dove mi sono formato come calciatore e come uomo». C’è un bambino dentro ognuno di noi e ora, in quella giacca elegantissima (blu) e sotto quella camicia (bianca) che richiama l’Evento, c’è un il cuore che batte forte: la vita ricomincia a quarant’anni (il 24 agosto, candeline) e quel Pecchia che sfila via nelle retrovie, con il passo da maratoneta e lo spirito d’un gregario di classe, ciò che resta nella memoria è qualsiasi frammento della sua «napoletanità», la sua prima maglia con Lippi, la qualificazione in coppa Uefa, l’escalation, la felicità smarritasi a Vicenza – in una finale di coppa Italia che ancora fa rabbia – e poi la cessione alla Juventus… E il ritorno nel Duemila.

DENTRO IL SECONDO – La storia va aggiornata (di ora in ora) e mentre intorno il fascino da conquistatore di Rafè si prende Castelvolturno palleggiando con i bambini del Summer Camp, gli occhi scrutano qualsiasi angolo d’una terra attraversata di striscio, poi sfiorata due stagioni fa – quando Riccardo Bigon stava per affidargli la Primavera – infine afferrata quasi come in un sogno, con la telefonata che non t’aspetti e che rappresenta una convocazione verso l’Olimpo: «Essere al fianco di un allenatore di questo spessore è per me motivo d’orgoglio. Esserlo nel Napoli, mi rende fiero». Fabio Pecchia parte terza: e stavolta c’è da mettere al servizio di Benitez le proprie conoscenze di un ambiente nel quale è stato prima una promessa e poi un leader, centrocampista di corsa e di pensiero, interditore e anche finalizzatore, un mediano moderno e un centrocampista con la stoffa, un pensatore, una guida (anche culturale), un avvocato per cause tecnico-tattiche di rilievo, un tuttofare e non un tuttologo.
C’ERA UNA VOLTA – Il Pecchia enfant prodige, che il Napoli acquista dall’Avellino, avendo consapevolezza che in quel ragazzino c’è del buono: c’è la testa, innanzitutto, che spinge a starsene sui libri e ad inseguire la laurea (poi raggiunta), perché il calcio è nello «ma non si sa mai». E’ la filosofia di chi è nato in provincia, di chi vive a Lenola nel Frusinate, di chi è cresciuto con i valori che valgono ovunque, in città come in metropoli; è il senso autentico di chi sa che uno su mille ce la fa però deve metterci dentro tutto se stesso e fa niente se le notti sono interminabili, perché il Diritto Privato ti ruba il sonno, ed i pomeriggi restano faticosi, perché Vujadin Boskov ti esalta però invoca sacrificio.
LA SVOLTA   Nulla è per sempre e quando il chiodo invece invoca le scarpette, il calcio va studiato dalla panchina, non più dal buco della serratura della propria fetta di campo: cambia il punto d’osservazione e l’«altro» Fabio Pecchia è proprio quello che t’aspetti, perché lui da tecnico ha studiato eccome, non solo al fianco dei suoi compagni di squadra e non sempre con i tecnici che l’hanno accompagnato in carriera da sé, ma elaborando da sé sistemi e moduli e metodologie. La prima panchina è a Foggia, la patria di Zemanlandia, ed è folgorazione per il 4-3-3, metabolizzato anche dialogando con il boemo, assorbendone tutto quel che si può (tranne la nicotina). Poi, un salto a Gubbio, in serie B, per scommettere in compagnia della società, fino a quando non scopre d’essere stato lasciato solo, in maniera sorprendente; e infine Latina, che sarebbe storiella dell’altro ieri: trascina la squadra nella lotta per i play-off, va a vincere la finale d’andata di Coppa Italia, e quando la stagione sta per concedergli il piacere degli spareggi che conducono in B, gli viene strappata l’illusione con un esonero sorprendente. Però in quella palla (di cuoio) era stato già tutto scritto, evidentemente: Napoli e Pecchia, si ricomincia.
Fonte: Il Corriere dello Sport
La Redazione
M.P.
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