Ti approcci alla scrittura della breve analisi sul peso degli impegni europei sul nostro campionato e ti imbatti in una via crucis. Guardi i risultati e barcolli, senti gli attori delle scene – insomma allenatori e calciatori – e scopri rabbia, spesso lacrime e sangue (gli infortuni, i crack…). Oddio, ma di cosa parliamo? No, non è Nazareth, qui le scene sono i prati verdi degli stadi del calcio d’Europa, insomma immagini, al peggio, sconfitte, delusioni. E invece sbatti su bilanci che vanno all‘aria (ed è roba di milioni, non bruscolini), città, spesso nazioni (calcistiche) deluse, giornali che lacrimano titoli sulle ingiustizie dei calendari, tecnici licenziati, folle arrabbiate, e ti tornano in testa incubi fatti delle succitate vie crucis, chiodi e corone di spine. Possibile tutto ‘sto sfacelo? Non è sempre calcio, anzi il caro vecchio “pallone”? Sì che lo è, accidenti, le sconfitte sono sempre sconfitte, le eliminazioni sono sempre eliminazioni.
Ma siamo il Belpaese del pallone santificato, e allora andiamo a vedere dove finisce la partita e dove e perché inizia la drammatizzazione. Vox populi: si gioca troppo, ritmi insopportabili per i nostri calciatori, non sufficientemente tutelati dalle strutture federali e societarie. Le scoppole che naturalmente si rimediano una volta lasciata la Madre Patria pallonara o al ritorno al campionato sono sempre colpa dello stress, del troppo calcio, della mancanza di tempi di recupero. Questa la scusa che, ahinoi diventa il paravento dietro il quale ci si nasconde. Scomodo mettere la faccia di fronte alle responsabilità: responsabilità dalle quali di volta in volta fuggono tecnici, o giocatori, preparatori, club. La verità è che il presunto stress da overdose (fisica) di calcio non esiste. Perché mai, difatti, questo putiferio succede solo da noi? Che in Germania, in Spagna, in Inghilterra i calciatori sono più muscolari, hanno preparazione così diversa da non doversela prendere con lo stress dei calendari strizzati?
L’unica via di fuga, se proprio dobbiamo, per carità di patria, trovarne una, è che l’Italcalcio ha traiettorie emotive diverse da quelle del pallone d’Europa. Lo stress è diverso perché da noi la normale stanchezza atletica diventa più “invasiva” perché va associata a quella mentale, ambientale. Da noi ci sono mille radio, millanta giornali e media che vivono di pallone e dei vari suoi derivati. La vita dei protagonisti è scandagliata secondo per secondo, come ogni parola, gesto, sussurro (visto quando sul campo giocatori e tecnici parlano coprendosi la bocca per evitare che le telecamere poi studino il labiale per decifrarlo e magari far nascere un caso nazionale con le moviole delle smorfie o della lingua?)
Eccola, allora, la differenza di ‘peso’ del nostro calcio rispetto al resto d’Europa. E’ solo questo che fa lo assai più ‘faticoso’; lo stress mentale, psicologico incide sui muscoli più dei tackle e dei recuperi. Autorevoli esperti di medicina sportiva e traumatologia (il dottor Cillo, primario napoletano) e di preparazione atletica (Vincenzo Pincolini, milanese, ha lavorato col Milan e con la nazionale) ci hanno confortato: convergono sull’idea che incolpare i calendari e il troppo calcio è alibi e nient’altro. Allora basta fughe in avanti: abbiamo un calcio diverso nel suo intimo, nel sistema, troppo protagonista della società e del viver comune. L’abbiamo fatto noi così, cambiarlo sarebbe operazione enorme. E allora teniamocelo. Senza scuse e piagnistei.
Fonte: Il Roma
La Redazione
M.V.
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