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Ottavio Bianchi compie 70 anni: “Benitez è un vincente, come me!”

Da dentro il lontanissimo telefono di Ottavio Bianchi, insieme con la sua voce, arrivano i suoni sordi del fruscio di una pallina da golf e un rumore confuso di parole di altri illustri golfisti (Chiappucci, Massaro, lo slalomista Paolo De Chiesa) impegnati con lui in un torneo di beneficenza. Bianchi, 17 anni da calciatore e 18 da allenatore, quasi a voler dimostrare che agli orsi ogni tanto piace il miele, si concede parentesi dolci ancorché impegnative con lo sport del green. Il suo telefonino squilla due, tre volte. «Tutti mi fanno gli auguri per questi settant’anni, me li fanno ormai da giorni. Siccome li compio domani, e sono diventato scaramantico, perché mi sento napoletano sino al midollo, beh, speriamo di arrivarci…».

Napoli ’86-’87, lo scudetto. Ottobre 2013, i suoi settant’anni. È cambiato solo il resto del mondo o anche il calcio?
«Il calcio è espressione della vita, tuttavia a volte non è stato al passo coi tempi: penso alle nuove tecnologie. S’è, invece, trasformato moltissimo, e non in meglio, sotto il profilo economico. I giocatori dei grandi club oggi sono vere aziende individuali. Ai miei tempi, quando ho avuto il ruolo di dirigente nel Napoli, la bontà della potenza economica si misurava col numero di spettatori. Oggi il fatturato lievita sensibilmente con i diritti individuali e televisivi, merchandising, franchising… Quando vincemmo lo scudetto il quadro societario aveva tutt’altra dimensione, la strategia era valorizzata dall’intuito di un presidente come Ferlaino che alternava impennate a colpi di genio. Ora invece c’è programmazione, organizzazione di base. Noi eravamo più alla napoletana, più naif, investivamo in furbizia. Diverse anche le esperienze di squadra, adesso si gioca in velocità, squadre più corte, gesti tecnici quasi spariti come il dribbling o la giocata ad effetto».
Eppure nonostante lo scudetto e le coppe, lei non ha mai goduto di buona stampa.
«Mi definivano, con venature di disprezzo, difensivista ma non sono mai stato in imbarazzo davanti a un aggettivo del genere, perché una compagine è forte se lo è la difesa. Mi piacerebbe però vedere oggi qualcuno che gioca come quel mio Napoli: tre punte fisse e un centrocampista, per di più questi non dovevano arretrare come ora, tant’è che i nostri attaccanti, finita l’azione, restavano fermi in avanti. Oggi quella che chiamate organizzazione difensiva, altro non è che il catenaccio: nove persone dietro la linea del pallone».
Napoli 1986, Napoli 2013. C’è chi paragona le due squadre e soprattutto lei a Benitez.
«Siamo abbastanza simili. Anch’io non credo a esperienze tattiche monotematiche, noi eravamo abituati a cambiare in corsa come avviene in altri sport, perché l’abilità dell’allenatore è utilizzare al meglio la squadra. Il Napoli di Benitez è così, alterna al possesso palla le ripartenze, oggi non dite più contropiede, vero? Siamo simili anche nel carburante per esaltare la squadra: il pubblico e Napoli, se governati, ti danno la necessaria potenza. Chi inserirei nella mia squadra che vinse lo scudetto? Hamsik. Può giocare in più ruoli, possiede cambio di passo, gioca a testa alta. Tuttavia premesso che Maradona non fa parte di questo giochino, della mia formazione darei Careca e Bagni e pure Romano. Manca il regista in questo Napoli, pur se oggi non è sufficiente averne uno perché te lo ingabbiano, accade alla Juve con Pirlo. Bisognerebbe possedere più punti qualitativi di riferimento. Però regista o non regista, a mio giudizio, il Napoli può arrivare molto in alto, sia in Italia che in Europa».
Avrebbe voluto lavorare con De Laurentiis?
«Non ho avuto modo di conoscerlo e quindi non posso formulare un parere. Ho collaborato con presidenti come Viola e Ferlaino. Di Ferlaino mi chiedono spesso se è stato più bravo a vincere scudetti o a portare Maradona a Napoli. Rispondo che se lo si considera solo per l’acquisto di Maradona, è una deminutio. È stato bravo perché ha costruito progressivamente una grande squadra. Purtroppo, spesso, era condizionato da consigliori e lusingato da certe sirene e quindi si è stravolta la vera mission della sua presidenza, tesa al gruppo non al singolo, pur fenomenale, calciatore. Peccato, perché quando ragionava con la propria testa è stato imbattibile».
Maradona per lei è più croce che delizia. Almeno così si racconta.
«Macché, abbiamo vinto tanto insieme. Tuttavia…».
Ci parli del lato oscuro delle medaglie e delle coppe, dei rapporti con Diego, con la squadra, del pronunciamento di De Napoli attraverso la lettura di quel comunicato che attaccava lei.
«Nemmeno dieci di quei comunicati mi avrebbero tolto il sonno. E sa perché? Perché tra le tante note del mio curriculum ci metto anche questo attacco frontale. Sono stato calciatore, allenatore, dirigente di club e dirigente federale. Insomma, ho visto di tutto e di più, anche la singolarità di un ammutinamento. Con me il Napoli oltre allo scudetto è pure arrivato due volte al secondo posto. In più l’anno prima del mio arrivo nella squadra che i giornali pomposamente definivano solo di Maradona e c., s’era rischiata la retrocessione in serie B. Nonostante Ferlaino avesse speso tanti ma tanti soldi in acquisti. Nonostante Maradona e altri nomi importanti fossero finiti dietro il mio piccolo Como. Quando Allodi mi propose la panchina, ero scettico, Napoli è piazza facilmente infiammabile. L’avevo già conosciuta da calciatore, chiesi i pieni poteri e Ferlaino mi disse va bene. Ero qualcosa in più di un semplice allenatore. Elaborai un progetto che puntava a una crescita generale dell’ambiente, dove ognuno svolgeva il proprio ruolo nell’interesse generale. Non posso dimenticare l’aiuto della bassa forza, lavorano a Natale a Pasqua: magazzinieri, impiegati, ausiliari, giardinieri, quella vittoria non fu soltanto dei fuoriclasse. Ecco, mi piacerebbe che tanti venissero a lavorare a Napoli ma a patto che si conosca la genesi storica e culturale della città e della sua gente. Per me è stata una lezione irripetibile».
E qual è stato il segreto per vincere tanto a Napoli, con un pubblico che si esalta e si deprime, dove, come negli specchi deformanti, o tutto è bellissimo oppure tutto è bruttissimo?
«Semplice abituarsi a guardare in specchi normali, il segreto è tutto qui. A Napoli ci sono equilibri delicati, che fan presto a diventare squilibri, simpatie e antipatie tenaci, pensate a come viene trattato oggi da una parte dei tifosi Paolo Cannavaro. Io mi considero vaccinato perché a Napoli ci ho giocato e imparato come si gioca fuori campo. C’è chi parla a favore e ti tira contro gli amici e gli amici degli amici. C’è il calore che può diventare incendio. Così io ho fatto il pompiere. E sono ancora convinto che solo isolando la squadra dalle pressioni esterne si può vincere. Impermeabilizzandola, parola dal brutto suono. Insomma, quello fu lo scudetto dello spogliatoio e basta».
Tornerebbe oggi ad avere un ruolo nel mondo del calcio? La risposta è un lungo silenzio. Spesso, profondo, solido, netto.

Fonte: Il Mattino

La Redazione

L.C.

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