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Napoli, il calcio catartico tra Aristotele e Cavani

Sicuramente è colpa delle impressionanti immagini dell’Ilva di Taranto, il ciclone biblico che si abbatte sul luogo delle pubbliche colpe il giorno dopo gli arresti dei responsabili, il fulmine che distrugge la ciminiera, il povero operaio disperso che sconta i peccati collettivi, se stamane apro “Dadapolis” al capitolo “Antichi e nuovi dèi”. Qui si assiepa il pantheon napoletano del sacro e del superstizioso sbirciato da occhi esteri di viaggiatori quasi sempre disgustati ma spesso anche empatici, complici: San Gennaro, i sangui che si sciolgono, le Sirene, le sante e i santi barocchi, Virgilio Mago, Maradona e oggi ci potremmo aggiungere, che so, Cavani.
Ma, alla fine, due sono i frammenti che mi restano in mente: uno è di Maurice Aymard, storico francese, che nel 1977 scrive: «Se lo sport, sotto forma di sport collettivo, soprattutto di calcio, è riuscito ad occupare il primo posto, ciò è dovuto senza alcun dubbio meno al suo valore atletico che all’aver sostituito, seppure in modo più povero, la funzione che Aristotele assegnava alla tragedia greca: la purificazione delle passioni, provate fino al parossismo dallo spettatore durante la rappresentazione. Perciò lo scatenarsi delle violenze partigiane, che riproducono quelle dei clan nella vita politica: impossibile assistere a una partita come osservatori neutri, per la bellezza dello sport. Perciò la celebrazione della vittoria secondo il modello del trionfo: tutta la città si identifica allora, seppur per un tempo assai breve, alla sua squadra».
Il culto, come sappiamo, svuota le strade, tanto che attraversare Napoli durante la partita è la condizione ideale per non arrivare in ritardo ad un appuntamento. Solo che nessuno ti dà un appuntamento mentre c’è la partita: visiti il museo senza i suoi abitanti, il presepe senza i pastori.
E benché tutto questo sfoggio di partigianeria sia davvero triste considerato che si tratta di un evento del tutto secondario rispetto ai reali problemi della vita cittadina e che è una copertura collettiva – per la giovane disoccupata senza una vita propria che abita ancora in casa dei genitori, per il ragazzo di bottega con la madre allettata da una malattia terminale che porta a casa una media di trecento euro al mese e che finisce con spenderne la metà in birra e sigarette, per tutti i mariti infelici, per amministratori distratti, impotenti o incapaci, per il ladro e per l’assassino, per lo sfaticato e per l’annoiato, insomma per l’infinito, minuscolo mondo che è questa città – nonostante tutto questo si finisce con il partecipare all’evento. È così in occasione di ogni grande evento religioso cui, anche se non si crede, si guarda con la simpatia che si dedica ai giochi dei bambini, rumorosi, fastidiosi, eppure umani.
Il secondo frammento abita nel capitolo intitolato “Precarietà” ed è di un grande scrittore latino americano scomparso tragicamente, Manuel Scorza, che dedicò i suoi libri alla causa dei popoli andini e l’ultimo romanzo a un incontro fra un rivoluzionario e un anti rivoluzionario, “La danza immobile”, un titolo che ben si attaglierebbe all’inerzia superficialmente agitata della nostra città.
Scrive Scorza nel 1981 sulle pagine di questo nostro giornale: «Ora mi chiedono qual è l’aspetto di Napoli che mi ha più colpito. Preferisco rispondere leggendo alcune righe di un settimanale italiano: “La misura della degradazione sociale la diedero i commercianti nella giornata di mercoledì: andarono in processione dal commissario straordinario Giuseppe Zamberletti a lamentarsi perché arrivavano in soccorso troppi generi alimentari e vestiario. E loro vedevano precipitare gli affari”. E allora dico: l’aspetto più difficile di una ricostruzione sta nel fatto che ricostruire, secondo il significato letterale della parole, vuol dire costruire di nuovo la stessa cosa. E come costruire, ricostruire una società basata su tali mostruosità? Ecco perché si auspica, al posto del tragico terremoto geologico, un terremoto morale che riduca in macerie il sinistro edificio in cui abita tanto egoismo».
Ovviamente, come è chiaro e noto a tutti, questo terremoto morale a Napoli non c’è stato e non ci sarà poiché, come si legge nel frammento successivo di Alexander Herzen, dedicato alle differenze fra Napoli e Roma, percepite nell’anno di grazia 1848: «(…) Roma, come una vedova, è fedele al passato, non si stacca dal cimitero, non dimentica il perduto, le sue rovine le sono più necessarie del Quirinale. Napoli è fedele al godimento, al presente, è invasa dal demonio e danza su Ercolano, cioè su di una bara; il fumante Vesuvio le ricorda che è necessario sfruttare la vita fino a che c’è data».
Peccato che l’intero paese, l’Italia tutta, abbia finito con il contrarre questo morbo che a volte, e solo a volte, è una dote: l’assenza di pensiero e progettazione del futuro, l’indifferenza al bene delle generazioni seguenti, l’avidità che trascende il benessere del territorio e dei suoi abitanti. Ed ecco che torna l’immagine della tragedia di Taranto dove, per un istante, più ancora che il Dio biblico, è sembrato proprio che gli antichi dèi, quelli del mare e del cielo, si rivoltassero a punire l’arroganza umana. Ma, come si vede dal ricordo del terremoto dell’Ottanta di Scorza, Napoli e i suoi abitanti non apprendono nemmeno dalle disgrazie naturali, incapaci di interrompere il commercio egoistico che lega le piccole vite di ognuno all’infima sopravvivenza. Scorza notò, in altri articoli dedicati alla città, che questo è il luogo prediletto della morte, tutti ne parlano, tutti la esorcizzano: la morte riabita la città grazie ai suoi abitanti che la moltiplicano, invece di estinguerla, con ogni genere di piccolo e grande atto criminale, dal commercio della spazzatura alla mala gestione di enti pubblici, dall’imbrattare le strade all’edificazione di palesi abusivismi, dalla prostituzione dei bambini (da De Sade a Malaparte) all’arruolamento dei minori nelle file della delinquenza organizzata, dall’indifferenza alla connivenza.
Mi è capitato di leggere in questi giorni un racconto di Kipling intitolato “Mary Postgate” in cui una dama di compagnia, una badante diremmo oggi, che non ha mai amato né è stata amata, che ha cresciuto, insultata, il nipote della sua vecchia padrona, alla morte in guerra di quest’unico, ipotetico e mancato figlio, si organizza per bruciare tutte le sue cose: un lungo elenco di oggetti in tutto simile all’elenco delle navi di Omero, all’elenco delle navi giunte ad Ellis Island di Perec, l’elenco della vita trascorsa rimasta negli oggetti. L’Inghilterra è bombardata e, mentre Mary si accinge, senza alcun sentimento apparente se non un’energica vitalità, a quest’olocausto, muore una bambina sotto il crollo di un edificio: fa appena in tempo a chiedere se si è fatta molto male e poi spira. Mary è un testimone senza lacrime e senza cedimenti, torna indomita al suo rogo, ma dietro i cespugli trova un soldato nemico caduto in volo che le chiede aiuto, è ferito. Lei non l’aiuta, lo insulta e resta ferma a guardarlo finché non muore. Poi, soddisfatta, va a farsi un bagno e a prendere un tè. La Parca, colei che fila il destino degli uomini e poi lo taglia senza alcun dispiacere per l’atto compiuto, senza partecipazione emotiva, (Mary Postgate, una nostra possibile Maria Cancello), abita, nel cuore di Kipling, i ferrei tempi della guerra; noi facciamo in modo, purtroppo, che questa città sia sempre in guerra. A parte le apparenze emotive dei napoletani, credo di avvertire lo sconcerto di Scorza ogni giorno: come si può costruire, ricostruire su un terreno così infido, dove abitano tante e tanti Marie Cancello che prendono vita solo in occasione di un goal?

Antonella Cilento per “Il Mattino”

La Redazione

P.S.

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