Troppo giovane. Per allenare la Roma. Guidare una big. Parlare di scudetto. E anche l’addio da calciatore, dicono, è arrivato troppo presto. Forse per questo, quando Vincenzo Montella entra nella sede del Corriere dello Sport-Stadio, saluta e si accomoda nella sala riunioni, il tecnico del Catania sembra più grande dei suoi brillanti 37 anni. Completo blu petrolio, gilet, camicia bianca, senza cravatta. Basette alte. Sorriso cordiale ma contenuto, quasi parsimonioso. Quando comincia a rispondere in modo pacato ma netto alle domande sul Catania, la Roma, Capello, il Milan, pensi che non ci sia niente di più logoro che dire «troppo giovane» a uno che è nel calcio da venticinque anni.
A che punto è il progetto di Montella allenatore?
«Mi è capitata una piazza importante. Una delle cose che ho imparato è che non si finisce mai il percorso. E’ necessario sempre aggiornarsi e cambiare, a volte, metodo di allenamento. Io sono all’inizio, teoricamente le cose le conosco».
Dopo un’esperienza alla Roma, adesso il Catania: Montella è un attaccante anche come allenatore?
Sorride . «Bella domanda… Bisogna riuscire a dare equilibrio alla squadra e anche come figura che ricopri, gli umori incidono. Certo, mi piacerebbe avere sempre il pallino del gioco, sarebbe stimolante gestire le due situazioni».
Rimpianti per aver lasciato la Roma dopo averla guidata nello scorso campionato?
«No, perché credo che sarebbe stata una scelta sbagliata. Non avrei detto di no, ma ai dirigenti chiesi di non mettermi in imbarazzo, perché avrei detto di sì, ma in una piazza così è difficile perdonare le false partenze a un allenatore giovane».
Ma a Luis Enrique, giovane come lei, è stato perdonato l’inizio di stagione.
«Io sono contento per lui, bisogna dare tempo a un tecnico. E a un allenatore che viene da un ambiente diverso viene dato più tempo rispetto a uno che viene dallo stesso ambiente».
Lei non avrebbe avuto lo stesso tempo?
«Probabilmente no».
Poteva essere una decisione sbagliata, ma anche la società alla fine lo ha pensato. Secondo lei, cosa cercavano?
«Hanno scelto un nuovo corso, scegliendo un allenatore che non fosse contaminato dall’ambiente».
E magari legato a qualche giocatore.
«No, direi al calcio italiano. Volevano un uomo totalmente esterno, mi sembra molto comprensibile».
Un giorno tornerà ad allenare la Roma?
Distende le gambe sotto il tavolo e sospira . «Il mio obiettivo è crescere come allenatore, ma adesso devo pensare a tenere il posto, visto che ogni anno cambiano 12-15 allenatori…».
Come è nata l’ipotesi Catania?
«Ci siamo confrontati a fine stagione con Lo Monaco e il presidente Pulvirenti, non li conoscevo. Abbiamo parlato dieci ore di calcio, ho visto il centro sportivo, ci siamo piaciuti. Hanno organizzazione, tutti hanno diritti e doveri, ognuno è mentalizzato».
Aveva avuto altre possibilità?
«Allenare la Roma mi ha dato opportunità, quando alleni una squadra così vieni visionato. Qualche situazione c’era. Club di A, di B…».
Assieme a lei c’è una scuola di allenatori italiani che sta facendo bene: la Juve di Conte, il Siena di Sannino…
«E anche l’Atalanta».
Anche l’Atalanta, certo.
«Sì, non abbiamo niente da invidiare, guardate Mancini all’estero, ma questo non vuol dire essere i migliori».
Ripensando agli allenatori che lei ha avuto come calciatore, indichi la qualità di ognuno.
«L’equilibrio di Erìksson (mette l’accento proprio sulla i, ndr), la simpatia di Boskov, la gestione di Capello, la passione di Spalletti».
Chi di questi le ha fatto innamorare del lavoro di allenatore?
«I ragazzini che ho allenato».
Ha giocato al fianco di Mancini. Mai pensato che sarebbe diventato un grande allenatore?
«Sì, lo faceva già da calciatore».
Totti potrebbe diventarlo?
«Non credo ne abbia voglia. Bisogna avere una vocazione a insegnare, non credo che Francesco abbia questo entusiasmo, è più distaccato, è più timido, anche se non sembra».
Lei non ha un’idea rigorosa di gioco, ha cambiato modulo rispetto all’inizio della stagione: qual è la sua idea di calcio?
«Si dà troppa importanza al modulo, ma non c’è quello perfetto. Credo che i giocatori migliori, che tu pensi siano i migliori, devono giocare nel loro ruolo più congeniale. E parto da questo processo per costruire la squadra».
Maxi Lopez non è ancora al centro del suo progetto.
«Maxi Lopez ha cominciato a giocare titolare le prime partite, poi ho visto Bergessio crescere fisicamente e ho fatto le mie scelte».
Galliani dice che è un giocatore da Milan.
«Maxi Lopez viene dal Barcellona, è un attaccante importante, ora soffre il fatto che non sia titolare, ma è un giocatore da grande squadra, da 10-12 milioni, in fondo stava per essere venduto a una squadra in estate»
La Fiorentina.
Fa di sì con la testa, non aggiunge altro.
Lei non si opporrebbe alla sua cessione a gennaio.
«Io non perdo energie e tempo in queste scelte, il mercato non lo faccio io».
Avrebbe, però, bisogno di un cambio.
«No, perché abbiamo molti attaccanti. E poi ora torna Suazo».
Con la generazione di oggi, Montella giocherebbe in Nazionale?
«Io ero in un periodo in cui i piccoletti non andavano molto, mentre ora vedo che sono tornati di moda».
C’è una spiegazione tattica.
«Direi di sì. Ora si cerca di più lo spettacolo e servono piccoletti rapidi».
Di Natale non è da Nazionale?
«Sta facendo cose straordinarie».
Lei lo conosce fin da piccolo..
«Antonio da bambino non voleva giocare, poi quando ha deciso di fare il giocatore ci ha messo le sue doti, che sono sopra la media. E’ di un altro livello, è arrivato un po’ più tardi ma è arrivato».
E’ quello che le somiglia di più?
«No, forse Giuseppe Rossi».
Il suo Catania ha affrontato Milan, Juve, Inter, Lazio, Napoli. Quale squadra l’ha impressionata?
«Il Milan, sicuramente. E’ la più forte. La Juve comincia a essere una squadra da battere, il Napoli ha giocatori straordinari, in grado di lottare fino in fondo per lo scudetto».
Di Natale, Klose. Il campionato degli ultratrentenni.
«Quasi quasi potrei giocare anche io. Di Natale è fantastico, l’ho detto, Klose ha sorpreso tutti per l’umiltà».
Le è mai venuto il dubbio di aver smesso troppo presto, chiudendo a 35 anni?
«Non avevo voglia di andare via da Roma, ma nemmeno di arrivare al campo per allenarmi sapendo di non giocare, diciamo che ero stanco di arrivare incavolato».
Chissà cosa ha pensato quando ha visto Inzaghi in campo, domenica.
Sorride. «Gli ho detto che era tempo di smettere».
Cosa è successo, invece, con il Milan?
«Loro hanno giocato la partita in modo particolare, ci tenevano. Noi pensavamo di giocarcela con le stesse armi del Milan, ma non siamo stati determinati, vedo sui giornali che loro hanno fatto più falli di noi. Così non puoi giocare a San Siro, senza intensità, determinazione. Bisogna lavorare su questo aspetto perché ora comincia il nostro campionato. Incontreremo le squadre del nostro livello”
L’obiettivo del Catania è la salvezza.
«Ci sono tante squadre che si equivalgono. La differenza sarà non perdersi».
Tre squadre più deboli del Catania, ci sono o no?
«Devi vedere nel tempo, come reagisci a un torto subìto, una sconfitta, una vittoria importante».
Cercare la salvezza col gioco è un vantaggio?
«Credo che tutti gli allenatori provino a giocarsela, dipende dal materiale che hai a disposizione. Io ho fatto questa scelta di giocare all’attacco, per valorizzare i nostri centrocampisti offensivi».
Lei ha avvertito all’inizio un po’ di diffidenza a Catania, forse per quel 7-0 di Roma-Catania?
«Diffidenza perché non avevo mai allenato. Ma poi, sì, un po’ anche per il risultato di quella partita».
Da allenatore direbbe alla squadra di rallentare?
«Non è facile esporsi con i tuoi giocatori, non è educativo».
A proposito di rapporti tra allenatore e tecnico: se un giocatore chiamato a entrare in campo la mandasse a quel paese platealmente, come lei fece con Capello in Napoli-Roma, come si comporterebbe?
«Anche se mio padre mi rimproverò perché non ero stato educato, avevo ragione perché tanti particolari non si sanno…».
Che cosa successe?
«Alla fine del primo tempo Capello mi disse che sarei entrato, cominciai a scaldarmi. Ma non entrai. All’inizio del secondo tempo disse di continuare a scaldarmi… insomma sono arrivato al quarantesimo della ripresa, avevo corso per cinquantacinque minuti e allora… beh, non puoi prendere in giro una persona».
Pensare che poi se lo vide alla sua festa di compleanno, pochi giorni dopo. Suonò al citofono e disse: posso salire?
«Se avessi risposto io, gli avrei fatto fare un giro del palazzo prima di farlo entrare, ma a parte gli scherzi… il fatto che fosse venuto era un modo per scusarsi. Con gli anni ci abbiamo giocato sopra».
Ma a Napoli cosa gli aveva fatto cambiare idea?
«Niente, forse già pensava di festeggiare lo scudetto, a cosa avrebbe dovuto fare, stavamo vincendo e poi pareggiarono».
Da allenatore come le è cambiata la vita? Meno autografi?
«Più o meno è uguale, forse perché mi vedono ancora calciatore. La visibilità è la stessa, forse di più che da calciatore, fai più interviste che allenamenti».
Lei ha due figli.
«Uno di dodici anni e una di tre».
Il primo fa il calciatore?
«E’ stato preso dalla Roma, non ci voleva andare poi ha accettato quando me ne sono andato via io. Si diverte».
La cosa più importante.
«Fondamentale. Ora si è fermato perché ha qualche problema al ginocchio».
Mancino come lei?
«Mancino. E attaccante».
La Redazione
A.S.
Fonte: Corriere dello Sport
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