Gian Paolo Montali vive tra Parma e la sua casa in campagna, dove il fine settimana si porta gli appunti per scrivere il secondo libro e scandagliare la psicologia del calcio. Titolo: «Capi si nasce o si diventa?». Lei a quale tribù appartiene? «Me lo sono chiesto molte volte – ammette – forse un po’ lo sono nato perché sono diventato allenatore di volley a 26 anni, e un po’ lo sono diventato con il tempo. Andai un mese in Giappone a studiare i segreti della difesa giapponese e un mese sul mar Nero per conoscere il ‘muro’ russo» . Montali passò le sere a parlare di volley, bevendo vodka e mangiando alici crude. Era astemio. «Ma continuo a viaggiare, spinto dalla curiosità». A 51 anni, ex ct di pallavolo, tre anni dirigente alla Juve, due alla Roma, Montali ha ripreso a viaggiare. Presto andrà a vedere il City di Mancini, poi Napoli, Juve, Fulham e Psg. Molti incontri in agenda, molto calcio. Niente vodka.
Girando per l’Europa, come le appare il calcio italiano?
«Ha bisogno di idee. La crisi generale può essere l’occasione per avviare un grande cambiamento culturale».
Per esempio?
«Gli allenatori devono tornare al centro del progetto».
Siamo a sette tecnici esonerati in dieci giornate…
«Eh, lo so… ma chi ha dato continuità, come il Napoli, sta facendo bene. Il Milan, per esempio, ha dato centralità al tecnico, ma ce l’ha nel dna. In fondo ci sono due tipi di allenatori: quelli che dettano le regole e quelli che lavorano sul campo».
Nomi.
«Mourinho, Capello: vanno in una società e danno un’impronta. Poi ci sono gli altri: ottimi allenatori di campo, però hanno bisogno di una società organizzata alle spalle, che si occupi di tutto il resto, tipo il Milan».
Quindi Allegri è solo un ottimo allenatore di campo.
«Sì, ma di grande qualità».
Ranieri in quale categoriamo lo mettiamo?
«Allenatore di grande esperienza, che però non influisce o non vuole influire sulla vita della società. Direi aziendalista».
Mazzarri.
«Più moderno, molto preparato, e incide più di Ranieri con lo stile, anche lui aziendalista».
Conte.
«Credo che la Juve abbia trovato l’allenatore giusto: forte, innovativo, anche nel modo di cambiare la sua idea tattica iniziale, mostrando flessibilità. I grandi allenatori sono come i sarti: devono cucire l’abito perfetto addosso alla persona che hanno davanti».
Luis Enrique è un «sarto»?
«Mi incuriosisce molto. E’ rimasto l’unico allenatore straniero del campionato, andrebbe protetto come un panda. Però trovo insopportabile la voglia di emulare il Barcellona, non parlo di Luis Enrique, dico in generale. Mi piace la sua idea di calcio, con questi esterni molto alti. Del Barcellona si parla sempre del possesso palla ma la cosa più affascinante è la fase di transizione…».
Comincia a parlare come un allenatore.
«Ma no, studio tattica ma non sarà mai il mio campo.. .A Roma sono stato di supporto al gruppo, ma chiaramente non entravo nelle questioni tecniche… Le conoscenze, però, sono fondamentali per il club. Dicevo del Barcellona…».
Prego.
«Nessuno lo sa ma Guardiola, per esempio, non vuole giocatori con spiccate qualità fisiche. In palestra non fanno mai pesi per le gambe, allenano la parte superiore e fanno poco fondo. Lavorano sull’intensità, i passaggi veloci. I tecnici delle giovanili del Barcellona ti dicono sempre la stessa parola, ‘fuerte fuerte’».
In Inghilterra è diverso?
«Sì, profondamente. Ho visto i metodi di lavoro di Wenger all’Arsenal: ogni esercizio è una sfida tra i giocatori, riproducono l’intensità della partita anche per un torello. Entrano duro nei contrasti. C’è una grande cultura del lavoro».
In Italia è diverso?
«Dipende da chi li guida. Una cosa straordinaria che ho trovato nel calcio sono stati i giocatori: pensavo fossero ragazzi viziati, invece, a parte qualcuno che non ha capito la fortuna che ha avuto, amano il calcio, l’aspetto ludico, lo farebbero anche se guadagnassero un venticinquesimo».
In questi anni c’è un personaggio che l’ha affascinata più di tutti?
«Un allenatore. Dicono gli somigliavo per carattere: Mourinho. Quando fece la prima conferenza stampa in Italia, alcuni giornalisti greci mi mandarono sms per dire: Mourinho mi ha ricordato la tua intervista in Grecia».
Avrà detto «non sono mica un pirla» in greco.
«No, è per la capacità di difendere subito la squadra, avere fame, idee. Quando sono arrivato nel calcio mi sentivo un ufo, molti mi guardavano con diffidenza, soprattutto i vari faccendieri».
In Italia il mondo del calcio è conservatore, spesso incolto, poco votato alle novità.
«Ma a Mourinho ho sentito dire una frase: ‘Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio’».
Bella.
«Bellissima. E vera. Galliani, per esempio, non sarebbe potuto diventare il miglior dirigente italiano».
Cominciò, vendendo antenne.
«E Sacchi, allora? Disse ‘per fare il fantino non bisogna essere stati un cavallo’».
Lei, però, alla fine, ha dovuto lasciare la Roma. Che cosa è successo?
«E’ una domanda che mi continuano a fare. Prima cosa: trovo assolutamente legittimo che un proprietario nuovo si scelga i nuovi dirigenti. Era già un anno che Franco Baldini lavorava con i nuovi proprietari. Insieme non potevamo stare».
Perché?
«Abbiamo un profilo uguale, anche se lui sa molto più di calcio, mentre io sono più specializzato nell’organizzazione. Ma ho capito che c’erano differenze di vedute. Io avevo dubbi sulla scelta dell’allenatore».
Luis Enrique.
«Sì, perché questo comportava tutto un altro tipo di assetto di squadra».
Fosse dipeso da lei, Montella lo avrebbe confermato?
«Con un certo tipo di progetto sì, mi piace. Non è uno mite, come sembra: è molto determinato, non ha paura dei giocatori. Affrontava a muso duro i giocatori scontenti, tipo Borriello. E parlava chiaro. Anche con Totti e De Rossi. Sono contento sia andato a Catania, con un centro sportivo moderno, un ottimo dirigente come Lo Monaco. Montella diventerà un grande tecnico».
Con Ranieri all’Inter, lei ha avuto la possibilità di raggiungerlo?
«No».
Beh, Ranieri ha detto che è stato meglio così, per una questione di scaramanzia. «Ero alla Juve e sono stato esonerato, ero alla Roma ed è finita male…».
«A dire il vero alla Juve l’ho chiamato io, alla Roma ha dato le dimissioni, ma la sua era di sicuro una battuta…».
Da tifoso della Fiorentina, cosa ne pensa del cambio Mihajlovic-Delio Rossi?
«L’ad del Palermo, Sagramola mi ha parlato benissimo di Rossi, mi ha detto che è bravissimo a lavorare sul campo, ha un’idea perseverante e la segue».
E da manager, cosa pensa della Fiorentina?
«E’ una società dall’enorme potenziale. Pochi mesi fa ho visto cose interessanti, come il progetto dello stadio e l’idea del museo di arte contemporanea da inserire nella cittadella viola. Grande idea, moderna, rivoluzionaria. Poi tutto si è fermato».
Con Delio Rossi, Firenze ha ritrovato entusiasmo.
«Sarà importante il supporto della società.La parola più abusata nel calcio è ‘progetto’, in realtà non ne esistono perché servirebbero progetti a due-tre anni, e invece si fanno progetti di un giorno, due, tre. A Firenze mi colpisce il fatto che i giocatori vengano spesso attaccati per il mancato rispetto delle regole. Io credo che quando ci sono regole chiare e un’organizzazione forte, le regole vengono rispettate. Bisognerebbe capire perché questo non è avvenuto alla Fiorentina».
Quando un presidente chiede di incontrarla, qual è l’idea di cui lei parla subito.
«Quella di investire una parte del budget, tra il 5 e 6 per cento, nell’acquisto di giovani».
I club italiani l’hanno cercata?
«Sì, alcuni. Però ho un profilo di un certo tipo, non tecnico, di mercato, ma organizzativo e di gestione delle risorse umane. Un’organizzazione forte incide sui risultati. Quando le persone si rendono conto di essere valutate, rendono di più».
Mai pensato di prendere un piccolo club e farne un suo laboratorio di idee?
«Ci sarebbe una società che costa poco, in Spagna, è il Maiorca. Con cinque-sei milioni e un investitore può essere rilevata, ma… cito una frase di Walt Withman: ‘sono vasto, contengo moltitudini».
Dunque?
«Preferisco fare il manager».
La Redazione
A.S.
Fonte: Corriere dello Sport
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