Oggi su Sky Sport 24, quarto appuntamento con “Il Codice”, cinque interviste di Gianluca Di Marzio ai direttori sportivi della Serie A, in onda sul canale all news nel periodo delle feste. Di seguito l’intervista integrale al direttore sportivo della Roma Monchi, andata in onda oggi.
Ti senti un po’ Babbo Natale per i tifosi quando arriva il mercato?
Sì, quando arriva il mercato, d’estate o d’inverno, il mondo gira intorno ai direttori sportivi. Tutti aspettano che prenda tre o quattro giocatori e che diventeranno calciatori importanti. Invece per me normalmente il mercato di gennaio non cambia tanto una squadra, è per cambiare delle piccole cose. Se bisogna fare 4 o 5 acquisti, vuol dire che qualcosa si è sbagliato nel mercato d’estate.
Mai prendo un giocatore che non vuole l’allenatore e mai prendo un giocatore che vuole l’allenatore e non voglio io. È il mio modo di lavorare, nessuno dei due deve imporre il proprio punto di vista, tutto deve essere condiviso. Sono 16 le persone che lavorano nel mio ufficio, lavorano e viaggiano tanto, non solo Monchi.
Quante volte vedete un giocatore prima di decidere?
Tante volte. Noi facciamo una prima parte dell’anno in cui raccogliamo una visione generale, poi cominciamo a segnalare il giocatore, ma lo vediamo tante volte, tra le 6 e le 12 volte.
Non ti è mai capitato di prendere un giocatore che non avevi mai visto?
No, ma io sono un difensore della tv, perché credo che la prima impressione debba essere così, altrimenti dovresti avere 500 scout. Poi, una volta che capisci che un giocatore potrebbe avere certe caratteristiche, devi sempre andare a vederlo dal vivo.
Che differenza c’è tra fare mercato in Spagna e in Italia?
Qui si lavora in una vetrina, esce tutto (le notizie, ndr), è difficile, per me è stato il cambiamento più grande. In Spagna il mercato è importante, ma non diventa una notizia continua. Qui è una notizia non solo ad agosto o a luglio, ma a settembre, ottobre, novembre… quindi è più difficile.
I tifosi.
I tifosi della Roma hanno tutti ragione, ma il tifoso ha sempre ragione, solo che quelli della Roma di più, perché è vero che quando uno tifa una squadra come la Roma – che è una squadra grande, non solo in Italia, ma anche in Europa – bisogna vincere qualcosa. È normale, gli ultimi ai quali si può dare una colpa sono i tifosi della Roma perché hanno ragione. Io non posso dire niente, al di là dei media, ho sempre avuto la sensazione che loro siano vicini a me, ma è vero che qualcosa dobbiamo anche dargli. Sono tanti anni che non vincono niente, quindi è normale. Non sono venuto qui per vendere, ma per fare il mio lavoro e il mio lavoro era sistemare i numeri. Piano, piano l’anno scorso abbiamo sistemato più o meno i numeri e abbiamo fatto delle vendite normali, quelle che io ho pensato essere buone per la Società. Non ho la bacchetta magica, quello che ho fatto, l’ho fatto sempre nella stessa forma, lavorando con i giovani, ma anche con i giocatori che già sono fatti. Credo che alla fine i tifosi, voi (la stampa, ndr), potrete cominciare a capire quale sia la mia idea. So che il tempo nel calcio a volte non arriva mai. Ma sono convinto, perché so come lavoro io e come lavorano quelli che ho intorno, che abbiamo ragione.
Sei autocritico?
Tanto. Io sono il più esigente di tutti con me stesso. Io dico sempre che il direttore sportivo deve avere 3, 4 caratteristiche. Una di queste è capire quando sbaglia e imparare da quello che ha sbagliato. È vero che ho avuto la possibilità di vincere tante cose, ma il giorno dopo sono preoccupato perché non mi fermo mai al successo. Lavoro sempre pensando che domani il successo non arriverà. Quindi ogni giorno provo a dire “Dove ha sbagliato Monchi?”. Io non mi nascondo mai, metto sempre la faccia, perché credo sia giusto così. Ho la fortuna, qui a Roma e a Siviglia, di lavorare con autonomia. Quindi, se sbaglio, sbaglio io. Pallotta mi ha detto: “Questa è la tua squadra, questa è la tua Roma, tu devi fare questo”.
Hai fatto più cose giuste o sbagliate, da quando sei qui?
È troppo presto per saperlo. Ti faccio l’esempio di Dani Alves. Dopo un mese che è arrivato a Siviglia dicevano “Ma da dove è arrivato questo giocatore?”, e poi è arrivato dove è arrivato. Per me il primo anno abbiamo raggiunto un risultato ottimo, per come avevamo iniziato. Quest’anno è ancora presto per sapere come finiremo, perché siamo ancora vivi in tutte le competizioni. Penso che i bilanci si facciano alla fine della stagione, ma qualcosa ho sbagliato.
Perché fai il direttore sportivo?
Non lo so, mai avrei pensato di fare il direttore sportivo. Mi sono laureato per fare l’avvocato, che è quello che mi sarebbe piaciuto fare. Quando ho smesso di giocare, ho fatto un anno il team manager. È stato un anno orribile del Siviglia, che è andato in Serie B. in quel momento penso che nessuno avrebbe voluto fare il direttore sportivo. In quel momento il presidente me lo ha chiesto e io ho risposto “lo faccio”, senza pensare dove sarebbero arrivati, perché era un casino incredibile, la squadra era in Serie B, più vicina al fallimento che ad altre cose.
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