È in uscita «Il meglio deve ancora venire» (ed. Rizzoli, 216 pp, 17 euro) scritto da Walter Mazzarri con Alessandro Alciato. Prefazione di Massimo Moratti. Pubblichiamo un estratto del libro riguardante la sua ultima partita al San Paolo con il Napoli. Mazzarri rivela che De Laurentiis gli offrì un contratto in bianco per farlo rimanere.
Walter Mazzarri
Il paradosso è che mentre la squadra non si fermava, io pensavo allo stop. Il capolinea all’orizzonte. Ogni settimana ero sempre più convinto di lasciare. Nello spogliatoio nessuno chiedeva notizie, sapevano che mi sarei arrabbiato molto. E avrei negato con tutte le mie forze, anche nel periodo in cui pareggiavamo spesso, quando dalle tribune qualcuno iniziava a rumoreggiare, urlando: «Mazzarri dimettiti». Cori poco carini, indirizzati a me, con tanto di cognome per evitare che venisse confuso il destinatario.
Mentre li sentivo avevo la netta sensazione di aver dato all’ambiente più di quanto mi stesse restituendo, poi a mente fredda ho capito: la stragrande maggioranza dei veri tifosi napoletani resterà per sempre innamorata di me.
Da quelle parti tornerò ogni volta a testa alta, nonostante ci sia una parte di stampa purtroppo in malafede, giornalisti irrisolti e speaker radiotelevisivi con poca dignità che sperano vadano male le cose per ricamarci sopra, proprio mentre fanno finta di stare dalla tua parte. Per quattro anni, invece di apprezzare il mio lavoro per la causa, mi hanno fatto la guerra. Semplicemente perché non li ho mai considerati.
Il segreto sul mio addio è rimasto tale fino all’ultima giornata di campionato: Roma-Napoli 2-1, il 19 maggio 2013 allo stadio Olimpico. Anche se il 12 maggio il presidente De Laurentiis aveva intuito, tentando il colpo di teatro. Pardon, di cinema. Dovevamo giocare al San Paolo contro il Siena. Prima della partita è venuto nel mio stanzino facendomi una grossa offerta economica, una specie di proposta indecente. Voleva restassi, a tutti i costi (è proprio il caso di dirlo). Ma non era una questione di soldi. Se ne stavano andando gli stimoli. I ragazzi si cambiavano, noi due ci siamo appartati, mi ha messo un foglio davanti e una penna in mano, voleva firmassi per poi annunciarlo alla gente.
Ma non era il caso. Ho detto no, spiegandogli che avrebbe dovuto attendere ancora sette giorni per conoscere le mie decisioni.
Non volevo per nulla al mondo che si sapesse ufficialmente che me ne sarei andato. Non lì, non quel giorno. Il vero dovere di un allenatore è raggiungere il massimo con la propria squadra e, siccome i match da affrontare erano ancora due, pretendevo quegli ultimi sei punti in palio. Non potevo dire a nessuno cosa mi passasse per la testa. I giornalisti che rimestavano nel torbido, sempre gli stessi, parlavano di una mia mancanza di rispetto nei confronti della città e invece, proprio perché avevo la massima considerazione di chi mi stava intorno, l’intenzione era quella di lasciare con altri due successi. In ballo, prima di scendere in campo contro il Siena, c’era ancora il record di punti nella storia del club, avevamo l’obbligo morale di non distrarci. L’imperativo: portare il gruppo il più in alto possibile, in qualsiasi modo. Ci ha riprovato ancora una volta. Mi ha rimesso il foglio davanti. Niente da fare, io volevo altro. Volevo battere il Siena.
Detto, fatto. 2-1 con goal di Cavani e Hamsik.
A Roma hanno saputo. Al mattino ho convocato tutti in una sala del ritiro, all’hotel NH in via Veneto.
«Ragazzi, dopo la partita dovrete fermarvi un attimo con me. Al di là di come saranno andate le cose, al di là del risultato, vi dovrò dire due parole.»
Sul campo si è creato un clima strano e infatti abbiamo perso. Nello spogliatoio per ultimo è entrato De Laurentiis e, mentre la squadra lo salutava, il magazziniere Tommaso ha srotolato uno striscione: «Semplicemente grazie». Due parole per me. Il riassunto di un’incredibile avventura. Ho letto quella frase e mi sono commosso. Quattro anni, un milione di lacrime. Non sono riuscito a trattenermi. Avevo preparato un discorso, è andato a farsi benedire. Affogato dalle emozioni. Ho detto poco, molto meno di quanto avrei voluto: «Tanto ormai la mia scelta la sapete». Avevo un groppo in gola.
«Per correttezza e per una forma di rispetto nei confronti del nuovo allenatore del Napoli, chiunque sarà, io non vi chiamerò per qualche tempo.»
È partito un lungo applauso, spontaneo.
«Carissimi, vi saluto.» Me ne sono andato. Non ho dato a nessuno il tempo di controbattere. Non sono uno da cerimonie, comprese quelle di addio. Bastava guardarsi negli occhi per capire. Io ringraziavo loro, loro ringraziavano me. A Napoli, dopo quattro annate straordinarie, ho lasciato un’eredità preziosa, fatta anche di grandi sensazioni e ricordi irripetibili, di cui possono godere le persone oneste, quelle che non hanno altri interessi o secondi fini. Si sono battuti quasi tutti i record possibili rispetto al passato, ho trasformato in meglio il gruppo di lavoro che mi era stato affidato e consegnato. Ho dato tutto me stesso, compreso un pizzico di salute. Ci ho messo cuore, in tutti i sensi, e non voglio aggiungere altro. Mi sono sentito il sangue scorrere nelle vene, lo stesso che una volta all’anno San Gennaro scioglie nell’ampolla (Proprietà letteraria riservata 2013 RCS Libri Spa Milano)
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