Il ritorno al San Paolo domenica su un’altra panchina, quella dell’Inter. Un giorno speciale per Walter Mazzarri dopo quattro anni di successi con il Napoli. Una full immersion nelle emozioni e nei ricordi, Mazzarri ha rilasciato un’intervista in esclusiva a “Il Mattino”.
Mazzarri, da dove partiamo?
«Dall’inizio, dal primo giorno al San Paolo, quello della partita contro il Bologna. Si viveva un momento di sconforto, di scetticismo, sugli spalti si vedevano dei vuoti: il clima generale era piuttosto depresso e lo notai nello sguardo dei miei giocatori. C’era da ricostruire: bisognava risollevare mentalmente la squadra e nello stesso tempo dovevo spiegare la mia idea tattica. Tutto da fare in fretta perché il campionato era già iniziato e perché Napoli è un ambiente calcistico molto importante. L’esordio aveva quindi grande valore: segnò prima il Bologna, poi fu un nostro monologo e vincemmo nel finale con un gol di Maggio. La vittoria fu molto importante, diede fiducia alla squadra e all’ambiente».
Qual è stata la gioia più grande di questi anni?
«Ce ne sono state tantissime. Le gioie me lo sto godendo più adesso perché in quei momenti nascondevo la felicità con i miei giocatori per tenere sempre alta la loro concentrazione e tirar fuori da loro anche più di quello che avevano: il mio obiettivo dopo una vittoria era quello di guardare alla partita successiva. Partirei dal primo anno, con una grande rimonta, dopo aver sfiorato la Champions, conquistammo la qualificazione in Europa League: un traguardo che adesso viene considerato secondario ma che allora a Napoli non si conquistava da anni. La vittoria di Firenze, la mia prima trasferta, a un anno dell’ultimo colpo esterno del Napoli e su un campo considerato tabù. Naturalmente il successo di Torino con la Juve dallo 0-2 al 3-2, successo che mancava da più di vent’anni. Peccato per il record di risultati utili consecutivi sfumato a Udine per un arbitraggio particolare. Il secondo anno passammo il girone di Europa League. E ricordo la grande cavalcata fino alla prima qualificazione in Champions nella partita con l’Inter: quella serata fu una delle più belle».
E un ricordo della sua esperienza in Champions League?
«Si, anche quello è un altro ricordo straordinario. Un girone di ferro con la corazzata Bayern, il milionario Manchester City e il Villareal, comunque assiduo frequentatore del palcoscenico internazionale. Cominciammo con una grande prestazione all’Ethiad Stadium e un meritatissimo pareggio che rappresentò il viatico di quella che sarebbe diventata una storica qualificazione. Una sola sconfitta di misura a Monaco, contro i futuri vicecampioni d’Europa, e il sorpasso compiuto in casa contro la squadra di Mancini per avere sempre nelle nostre mani il nostro destino: vincere a Villareal come regolarmente facemmo per eguagliare gli ottavi di finale dell’epoca Maradona, anche se con una formula più complessa. Il tutto con una squadra composta dalla quasi totalità di giocatori esordienti in Europa e in particolare in Champions. Sì, davvero una grande impresa».
E la delusione maggiore?
«La sconfitta di Bologna, quella che l’anno dopo ci costò la qualificazione in Champions. Quella è l’unica sconfitta che proprio non sono riuscito mai a digerire: una partita sfortunatissima, increbile, tirammo cento volte in porta ma il pallone non voleva entrare. Ci rifacemmo con la vittoria della coppa Italia che aveva più significati: il trofeo mancava da tanti anni al Napoli, battemmo la Juve, una rivale storica, che in quella stagione non aveva perso neanche una partita, e fresca campione d’Italia. Avessimo vinto a Bologna avremmo centrato tutto in un’unica stagione: nuova qualificazione di Champions, coppa Italia e passaggio agli ottavi di Champions. Certo, fu una delusione momentanea anche l’eliminazione ai supplementari contro il Chelsea, dopo un doppio confronto nel quale avremmo meritato di più. Ho ancora l’urlo strozzato del mancato gol di Maggio che sarebbe valso il 4-1 al San Paolo e forse un’incredibile qualificazione contro coloro che sarebbero poi diventati i campioni d’Europa. Mi è comunque rimasta, dopo due anni, la soddisfazione di aver giocato alla pari, alla guida di una squadra inesperta in campo europeo e tuttavia diventata solida e consapevole grazie al lavoro e alla mentalità trasmessa della propria forza, contro giocatori del calibro di Drogba, Cech, Lampard e Terry».
Mentalità e atteggiamento: quali aggettivi darebbe al suo Napoli?
«Un Napoli solido, concreto e bello a vedersi. Proponevamo un modulo che era ancora poco usato, il Napoli divenne oggetto di studio da parte di altre realtà europee, il Barcellona di Guardiola ci invitò a giocare lì in estate. Non era un calcio fatto di ripartenze, tanto è vero che in certe partite giocavamo nella metà campo avversaria fino a 60-70 minuti. Era un calcio di giocate effettuate in grande velocità. E poi era un Napoli di grande carattere».
Cosa è mancato l’anno scorso per lo scudetto?
«Sottolinerei il fatto che il Napoli è stato vicecampione d’Italia arrivando davanti a squadre molto competitive e sulla carta meglio attrezzate. La Juve è stata irresistibile per tutto l’anno e ha dimostrato di avere qualcosa in più. Per noi furono decisive alcune partite, come la sconfitta contro il Chievo e la sfida contro la Juve al San Paolo quando non concretizzammo l’occasione per vincere 2-1. Comunque restammo ancora in corsa vincendo diverse partite consecutive».
Quanto lei ha dato al Napoli e cosa le ha dato Napoli?
«Io ho dato tutto me stesso alla causa. Credo di aver ottenuto il massimo da giocatori che non erano abituati a giocare per il vertice e che provenivano da club che non lottavano mai per i grandi traguardi, come ad esempio Dzemaili, Britos e Mesto ma anche i vari Armero, Mascara, Calaiò, tanto per citarne alcuni. Cosi come uno splendido feeling di lavoro si è stabilito con giocatori trovati già in casa Napoli, da Aronica a Maggio, a tutti gli altri. Tutti quanti sono stati portati a livello internazionale e c’è stata la crescita esponenziale della loro valutazione economica, come nel caso clamoroso di Zuniga. E ancora l’intuizione di puntare su Behrami e sulle sue motivazioni di rilancio, un acquisto indovinato e fatto nel rispetto dei parametri economici e di tetto ingaggi imposti dalla società e superati solo dopo la mia partenza. Cosa ho avuto? I giocatori mi hanno dato grande disponibilità e mi hanno ascoltato sempre alla lettera. La gente di Napoli mi ha dato tantissimo: ho bisogno di stimoli forti e i napoletani mi hanno dato sempre una carica incredibile mettendomi nella condizione migliore per lavorare bene».
E quale eredità ha lasciato al Napoli?
«Una squadra vera, competitiva, con una grande mentalità, evoluta sul piano tattico e tecnico al di là dei sistemi di gioco, un parco giocatori valorizzato al top con il morale alto e l’autostima al massimo, oltre ad una società arricchita dalle plusvalenze realizzate attraverso la valorizzazione dei giocatori. I risultati in questi quattro anni sono stati raggiunti, ripeto, rispettando sempre i parametri societari dettati durante la mia gestione e il Napoli in questo momento dal punto di vista dei bilanci è tra i primi club d’Italia e anche d’Europa. Durante la mia gestione ho sempre utilizzato e valorizzato tutto il materiale umano messomi a disposizione del club, facendo sempre i conti con una qualità complessiva non in grado di competere allo stesso livello su tutti e tre i fronti».
Quattro anni con De Laurentiis: ci descrive il rapporto con il suo ex presidente?
«Un rapporto basato su un confronto tra forti personalità, non sempre facile, dai toni decisi e sui quali ho sempre assunto le mie responsabilità e che ha comunque prodotto quattro anni vincenti da tutti i punti di vista».
Perché ha deciso di non rinnovare il contratto con il Napoli?
«Io sono un allenatore che vive i risultati sulla sua pelle e ho dato sempre oltre il massimo per ottenere vittorie in una piazza competitiva come Napoli. Ho spiegato varie volte la mia scelta e non voglio tornare più su questo argomento. Sono un uomo abituato a concentrarmi sul lavoro che svolgo, sulla squadra che alleno, come ho fatto per quattro anni a Napoli, e a fare fatti e non parole. Le chiacchiere non sono la mia priorità, eventualmente per quelle c’è sempre tempo».
E quando scelse di non rinnovare?
«Anche questo l’ho spiegato ampiamente, più volte. Di certo, pur avendo già preso la decisione che sarebbe stato il mio ultimo anno al Napoli, non ho voluto ascoltare nessuna proposta fino a quando non si è chiuso il campionato a Roma anche perché se non avessi trovato una proposta reputata da me stimolante, avevo anche preso in considerazione la possibilità di restare fermo per un periodo».
Quando invece ha scelto l’Inter e cosa l’ha convinta?
«Dopo l’ultima partita di campionato restai a dormire a Roma. In quei giorni ebbi dei contatti con più di una società, non solo con l’Inter, in quel momento mi cercavano tre-quattro squadre, qualcuna anche dall’estero. Mi convinse il presidente Moratti, nel colloquio diretto che ebbi con lui, le sue parole mi sono piaciute subito. Spesso nella mia vita vado a pelle, a sensazioni, e dissì sì, senza guardare i valori tecnici della squadra, come feci a suo tempo a Napoli, e tantomeno ai miei interessi personali. Un’ennesima sfida».
Che accoglienza si attende dai tifosi del San Paolo?
«Non lo so ed è difficile anche immaginare le emozioni che proverò io quando entrerò allo stadio. Vorrei solo che i napoletani ricordassero i quattro anni di grandi risultati e tutte le cose belle fatte insieme, come le ricordo io perché per me Napoli sarà sempre un ricordo speciale».
Che Napoli si aspetta?
«Un Napoli fortissimo sia come organico che come motivazioni».
Napoli-Inter che partita sarà?
«Una bella partita, una partita spettacolare tra due squadre che giocano bene al calcio. Sappiamo di affrontare una squadra dal grande potenziale e dovremo fare bene le nostre cose».
Che ruolo reciterà il Napoli in questo campionato?
«Quando salutai i miei vecchi giocatori con grande commozione dissi che se fossi andato da un’altra parte non li avrei più contattati e non avrei più parlato di loro e del Napoli. Ho fatto questa scelta per correttezza nei confronti della mia vecchia società, della mia vecchia squadra, della mia vecchia tifoseria e della nuova guida tecnica. Del Napoli parlai solo in estate prima che partisse la nuova stagione e, a precisa domanda, risposi che era ormai pronta e matura per i massimi traguardi e per proseguire la strada ricominciata da me, dopo oltre vent’anni, con il trionfo in coppa Italia. Poi non ne ho parlato più e non lo farò».
E l’Inter?
«Per noi è un anno di ricostruzione, per certi versi una situazione molto simile a quella che trovai a Napoli. Bisogna lavorare, crescere, migliorare giorno per giorno: l’obiettivo è arrivare il più in alto possibile».
Torniamo al passato allora, quanto è stato importante per la crescita di Cavani e Lavezzi?
«Cavani, fortemente voluto dal sottoscritto, e Lavezzi erano già dei buoni giocatori, ma ancora giovani. Con il mio lavoro, quello del mio staff e con il loro impegno, hanno avuto una crescita esponenziale affermandosi in Italia e in Europa e diventando un patrimonio della società e per la stessa ricchissime plusvalenze. Sono cresciuti come tutti quanti gli altri della rosa che hanno dato sempre il massimo, come Cannavaro e Grava, due ragazzi speciali, due uomini veri. Anche su Pandev è stato fatto un grande lavoro di ricostruzione perché veniva dagli anni difficili con l’Inter. E lo stesso discorso vale per Insigne che veniva dalla serie B e per crescere doveva fare un certo tipo di esperienza al suo primo campionato di A, dove ha collezionato tutte le presenze e ha accumulato esperienze europee in Europa League. Per altro, ero stato io stesso a farlo esordire, tre anni prima, giovanissimo».
Hamsik ha scelto di restare a Napoli e di essere un simbolo per il presente e il futuro: che ne pensa?
«Marek è ormai un campione consacrato. Ha fatto questa scelta di legarsi a lungo al Napoli ed è un patrimonio della società».
Per finire, ci definisca Mazzarri allenatore.
«Un allenatore che lavora moltissimo sulla tattica, innanzitutto offensiva. Da tredici anni faccio l’allenatore: le mie squadre hanno avuto sempre i reparti offensivi migliori e i miei attaccanti hanno sempre fatto con me qualcosa di speciale e spesso vinto la classifica cannonieri, come l’anno scorso Cavani. Alle mie squadre cerco di dare sempre un’anima come dissi il primo giorno che arrivai a Napoli. Con tutti i giocatori instauro un rapporto da padre di famiglia, autorevole ma non autoritario. Do molto importanza al dialogo personale così da stabilire un rapporto molto forte, vero, intenso. Il mio modo di vivere la partita con grande partecipazione credo che conferisca ancora più convinzioni alla squadra».
Fonte: Il Mattino
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