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Mazzarri e il suo Napoli infinito

La sintonia inedita tra l'allenatore e la folla

Ha la faccia del sassofonista di balera in un mondo di fighetti. Ecco chi è il tecnico del miracolo Walter Mazzarri è un uomo che viene da lontano. Gli piace così: altrimenti si perderebbe, e perderebbe. Vince quando ha l’handicap, l’impossibile distanza dal successo. Per esaltarlo ci vogliono undici punti di penalizzazione, due gol di svantaggio, una faccia da sassofonista di balera in un mondo di fighetti e, soprattutto, il cronometro stremato che non ne può più e vuole smettere di correre. È lì che Mazzarri costruisce la sua estrema fortuna. Lo fa con una scaramantica cerimonia che comprende gesti, intenzioni e, come sempre nei riti, un sacco di polvere alzata verso il cielo. Toglie la giacca, esibisce la camicia bianca, cosicché il colpo al cuore, dovesse arrivare, sia un fiore di sangue. Poi fa cambi che non mutano l’eterno schema di gioco.
Eppure ci son giornate come domenica in cui a ogni nuovo ingresso, per quanto non decisivo, corrisponde un gol. E allora ci si domanda dove finisce il caso e comincia l’intuizione. Il giocatore che Mazzarri non sostituisce mai è il dodicesimo: la riserva di fiato e cuore che viene dagli spalti, il pubblico del San Paolo. È a lui che pensa veramente quando sillaba la frase: “Napoli infinito”. E lo stadio si allarga ancora di più, a contenere orgoglio e fantasie.
C’è una sintonia inedita, tra l’allenatore e la folla. Napoli in passato ha vinto con tecnici composti (Bianchi e Bigon) e giocatori folli (Maradona, Bagni, per dirne due). Quest’anno è ancora in corsa con un ossesso in panchina e una squadra in cui il solo eccentrico è Lavezzi, gli altri vanno in chiesa, fanno i compiti e tutt’al più esagerano con il gel. Al boss gli originali danno la nausea. Alla Sampdoria quando comprarono Cassano li guardò come se avesse ricevuto in dono un’emicrania, poi gli mise la testa a posto per due anni, ricavandone il meglio. Preferisce giocatori essenziali. S’innamorò dell’uruguagio Gargano da avversario: da solo lottava contro cinque, sradicava la palla e via se la portava. Quando arrivò a Napoli proclamò: “Su di te fonderò la squadra”. Gargano è alto 1,68, è instancabile e oltre a correre pensa, ma come base appariva pericolante. Invece il mezzo era il messaggio: una squadra di furetti con la rabbia. Ma solo sul campo. Appena Gargano ha osato esprimerla uscendo, sostituito, si è preso una ramanzina in diretta e da allora parte dalla panchina.
Il boss è uno. Il boss è solo. Vive a Castelvolturno, casa e bottega. Si sveglia alle sei e dopo mezz’ora è al telefono con il presidente De Laurentis a fare analisi della situazione. Magari intercettassero pure loro. Fanno duetti dal giorno della presentazione, quando l’effervescenza di Mazzarri fece evaporare la soffusa tristezza di Donadoni. Come accade ai vulcani, s’accendono a turno. Più spesso De Laurentiis, che paga e quindi erutta quando gli va. Non ha ancora digerito l’uscita dall’Europa League, affrontata con le riserve per non sottrarre energie al campionato. Ancor più di traverso gli è andata che la corte della Juventus non sia stata respinta con sdegno.
D’altronde Mazzarri ha due limiti: si ferma poco e non ha ancora vinto niente. O ha già vinto tutto, considerando le occasioni che ha avuto. Ha portato il Livorno in serie A. Ha salvato la Reggina partendo dall’abisso, in apnea. Ha spinto la Sampdoria in Europa. A Napoli, “se succede” ha fatto più di San Gennaro, “ma se non succede” l’ha comunque eguagliato. Questa squadra è tutta sua. Si è portato il suo staff, capitanato da un preparatore atletico che ricarica le batterie a chiunque. Ha fatto il mercato. Di una cosa, anzi due gli va dato atto. Una: ha creduto che Cavani potesse essere una prima punta. E due: con il suo schema fisso il Matador ne avrà fatti già 25, ma qualsiasi centravanti (da Pazzini a Bonazzoli) l’ha sempre messa dentro.
La città lo adora. Il sol pensiero che possa andare a Torino ha già provocato blocchi stradali e scritte sui muri. Se il personaggio è però anche solo lontanamente quel che appare, non è alla Juve che sta pensando. Mancano sette giornate. Non c’è recupero. È sotto di tre punti, che ne valgono quattro avendo perso gli scontri diretti. Il Milan può tenere in panchina Cassano e Robinho. Lui si gira e vede quel che resta di Lucarelli.
Nel cielo sopra il San Paolo cominciano ad addensarsi come nuvole leggere i titoli di coda: è stato bello, grazie lo stesso. Qualsiasi sogno quando si sveglia, spettinato, è soltanto un ricordo. Sarà chiaro che è arrivato il suo momento dei momenti. Che adesso gira per casa con la camicia bianca e le maniche rimboccate. Invoca il pubblico anche in bagno. Manca poco, ormai niente. E l’impresa è impossibile. Che cosa può chiedere di più agli dei? 

Fonte La Repubblica

La Redazione

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