Lo scrittore Maurizio De Giovanni:
“Lo so. Dovrei essere gentile e obiettivo. Dovrei ricordarmi di far parte del variegato mondo detto degli intellettuali, essendo uno che racconta storie che vengono lette e pubblicate; e quindi parlare di fenomeno sociale, assumere un’aria vagamente supponente e dichiarare che si tratta pur sempre di effimero, il calcio; che di fronte ai veri e grandi problemi della città concentrare l’attenzione su un evento così è un distogliere lo sguardo dalle cose serie. Dovrei forse scegliere un taglio sorridente e far riferimento alla creatività gioiosa della tifoseria azzurra, agli sfottò e all’umorismo degli striscioni, chi non salta bianconero è. Dovrei minimizzare, ammorbidire, smussare.
Ma mentirei, e si capirebbe subito. In realtà qui si tratta di una cosa seria, fondamentale: qui si tratta della prima volta, da quindici anni, che il Napoli si ritrova a concorrere per un trofeo, e anche quella volta ci eravamo arrivati in maniera casuale, senza l’impressione di una vera forza, perdendo contro un Vicenza tutt’altro che irresistibile, e invece stavolta ci si arriva sulle ali di una convinzione, di una solidità sconosciuta da queste parti da almeno un quarto di secolo. E contro chi si gioca, adesso? Chi è che si frappone tra noi e la prima coppa sollevabile da allora?
Non saprei rispondere alla domanda che spesso ci facciamo, sul perché, tra tante squadre che nel tempo abbiamo visto sorpassarci e poi vincere davanti, sia proprio questa la rivale d’elezione, la principale avversaria, la prima nemica. Forse perché il nostro è il tifo dei napoletani, in città e nel mondo: la passione di chi vede nella squadra la propria città, nel bene e nel male, coi pregi e i difetti. I “loro” tifosi, invece, sono quelli che salgono volentieri sul carro del vincitore, quelli che vogliono sentirsi primi e forti, senza legami territoriali (a Torino battono soprattutto cuori granata). Forse perché il nostro è un tifo popolare e proletario, chiassoso e un po’ volgare, mentre “loro” sono quelli del Palazzo e dei salotti buoni, con il padronato miliardario e l’orologio sul polsino. Forse e semplicemente perché il contrario dell’azzurro è il bianco e il nero.
Ogni anno per due volte, e stavolta per tre, noi chiediamo ai ragazzi qualcosa in più. Lo chiediamo perché se si vince, quando si vince, si va a letto col sorriso e il sorriso ci rimane in faccia per tutta la settimana. Lo chiediamo perché è una soddisfazione che non vale certo un campionato, ma insomma un po’ di più di una vittoria qualsiasi certamente.
Non succede spesso. Un mare di volte i sogni si sono infranti su questo scoglio. Personalmente sono aiutato da una strana memoria selettiva: non ricordo cuori ingrati e avversari esultanti con la lingua di fuori, francesi con i riccioli o senza capelli che alzano le braccia, ex idoli vincenti con l’odiata maglia, Ferrara, Cannavaro, Quagliarella. La mia mente cancella queste immagini. Ricordo invece la punizione a due, il tocco di Pecci e la magia del Più Grande; il gol di Giordano a Torino; i cinque gol della Supercoppa; il gol di Renica, con cui li eliminammo dalla semifinale di coppa Uefa; la tripletta del Matador; il gol di Datolo, che ha dato un senso al suo passaggio in città.
Pezzi di vittorie, momenti di trionfo: ma non una finale, una partita alla fine della quale un capitano, e uno solo, alza il trofeo.
Se ci penso oggi, non poteva essere che così. Li troviamo sulla nostra strada, l’ultimo ostacolo prima del trionfo; che trionfo non potrebbe essere, non completamente, se non passasse attraverso la “loro” sconfitta.
Lo sapevo, che avrebbero superato il Milan. E lo sapevo, che avremmo battuto il Siena. Lo voleva il destino.
Perché se dobbiamo vincere questa coppa, se dobbiamo ricominciare ad alzare trofei, possiamo farlo solo in un modo.
Battendo la Juventus”.
Fonte: Il Mattino
La Redazione
P.S.
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