Ieri, a quasi un’ora dall’inizio, la partita aveva una sua fisionomia, ma non certo un risultato acquisito. Gli azzurri stavano producendo un bel gioco scintillante, le occasioni da gol fioccavano, ma il vantaggio era di misura; peraltro, a incrementare gli scaramantici scongiuri dei tifosi, quel vantaggio era maturato come all’andata con un gol da fuori area di Dzemaili. E il modestissimo Sassuolo, ottimo candidato al pronto ritorno in cadetteria, andava prendendo fiducia e disperazione, per cui si faceva sotto in maniera sempre più costante, pur senza dare grosse preoccupazioni a Rafael. Insomma, non un bellissimo momento, l’undicesimo del secondo tempo della partita di ieri. La vita, sapete, non ha uno sceneggiatore. Se ci fosse stato, forse si sarebbe posto il problema dell’eccessiva, non plausibile drammaticità della situazione che si stava verificando, poco reale, troppo teatrale. Invece il ragazzo con la cresta ha visto, come al solito con l’occhio in più che hanno i fuoriclasse, scattare la piccola maglia gialla numero ventiquattro dietro la linea dei difensori neroverdi e si è prodotto nel magico tocco in profondità che è una delle sue caratteristiche: e così Insigne si è trovato nella sua posizione, quella del rientro da sinistra sul piede destro, sul vertice estremo dell’area del Sassuolo, con un solo difensore davanti. E quel difensore, siccome la realtà ha il senso del drammatico maggiore di ogni sceneggiatore, era Paolo Cannavaro, fino a pochi giorni fa il capitano in pectore del Napoli, il simbolo della squadra che era partita dalla serie C per approdare alla Champions, una specie di padrino proprio per Insigne, che aveva visto crescere (poco fisicamente, tanto tecnicamente) fin da bambino, nella nidiata delle giovanili di quella squadra che ieri invece per la prima volta affrontava da avversario. Palla al piede, Insigne non ha avuto il tempo di pensare. Perché forse, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe pensato a una stagione non sempre facile, alla concorrenza pesante e pressante di tante stelle, al suo talento scintillante e opacizzato da qualche prestazione non all’altezza delle immense aspettative. Avrebbe pensato a un Mondiale da acciuffare per i capelli, ad avversari difficili da superare nel cuore di Prandelli uno dei quali è proprio quel Berardi di proprietà della Juventus che a diciannove anni sta mostrando enormi qualità e un pessimo carattere, in campo a provocarlo fino all’ammonizione. E avrebbe pensato a un maledetto e benedetto tiro a giro, provato e riprovato sulle orme del suo idolo Del Piero, e così poco nelle sue corde quest’anno. Forse, tutti questi pensieri lo avrebbero portato a cercare una soluzione meno istintiva e quindi meno produttiva. E se Cannavaro avesse avuto il tempo di pensare, forse avrebbe pensato ai tanti anni passati con la fascia azzurra al braccio; e a quante volte in allenamento si era ritrovato ad affrontare il piccolo concittadino, e a come a volte riusciva a saltarlo e a volte no. Avrebbe forse pensato a com’era strano trovarselo di fronte da avversario, sgusciante e pericoloso, rischiando di fare brutta figura o di doverlo tirare giù in area, regalando magari un rigore ai suoi ex compagni e a chi, così frettolosamente, ha deciso di fare a meno di lui. Per fortuna però il calcio non dà il tempo di pensare. E così Insigne ha fatto il Magnifico, e procuratosi un angolo di tiro ha prodotto il colpo che va cercando dall’inizio del campionato, e che magari lo aiuterà a staccare un certo biglietto aereo per Rio; e ha chiuso una partita che magari sarebbe diventata rognosa e che invece si è trasformata nella festa dei sei punti dalla quarta, e della pressione messa ai giallorossi. E alla fine il vecchio capitano di molte epiche battaglie, che avrà tempo e modo di dimostrare al mondo che ha ancora tanto calcio nelle gambe, ha scambiato la maglia col piccolo avversario amico. La maglia e un sorriso. Perché se uno l’avversario lo vede crescere, poi gli vorrà bene anche se gli fa gol. Per fortuna, il calcio è sentimento.
Fonte: Maurizio De Giovanni per Il Mattino
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