Un giorno ci spiegherà, caro signor Benitez. Ci spiegherà perché, seppur perdendo, quando l’aria sa di Coppa il Napoli diventa un’altra cosa. Ci spiegherà perché di mercoledì (quando c’era la Champions) e di giovedì (adesso) il ritmo sale e per buona parte l’attenzione pure. E perché il Napoli fa differenza tra la partita secca e la routine. Intanto, però, non può essere neppure benedetta questa brutta abitudine della squadra azzurra, finalista della coppa nazionale e fuori all’improvviso dai quarti della cugina stracciona della Champions. Con tutto il rispetto, si capisce. Chissà come finirà questa stagione, ma intanto il conto dice d’un Benitez, scudetto a parte, ma quella era un’illusione, che vede sfumare quella coppa che fu sua l’ultima volta in Inghilterra. Lui, il più aristotelico degli allenatori che abitano il nostro campionato e non solo per la precoce propensione all’insegnamento e all’idea di calcio un po’ edonista; lui, in questo mondo del pallone in cui gli allenatori si nutrono spesso di pressioni e di tensioni fino a vivere la partita come un dramma e l’ombra d’un appunto come offesa grave, ebbene, lui, il signor Benitez, sembra saper bene che poi, in fondo, alla faccia di lavagne e geometrie, il calcio appartiene più ai piedi dei giocatori che alla testa e alle fisime dell’allenatore. Per questo, furbo com’è, vuole in campo solo gente che conosce, quasi tutta già sperimentata, quasi tutta di sicuro affidamento. O quasi. E’ il suo semplice segreto. L’altro è che – piaccia o non piaccia – chiunque sia dall’altra parte, alla faccia di infortuni e pure di qualcuno che col pallone a volte non ci va d’accordo, trova sempre il coraggio di giocarsi la partita. E col coraggio, la gioia di creare gioco e non distruggerlo soltanto come fanno in tanti. A volte ci riesce – e sembrava potercela fare anche stavolta – altre volte no. Soprattutto quando, come è capitato contro il Porto, s’accoppiano i due peccati mortali degli azzurri, che sono pure le due colpe gravi di Benitez: non saper chiudere le gare e poi farsi fregare là in difesa. Infatti, fosse stato meno innamorato delle proprie idee, più pragmatico, più figlio di James che d’Aristotele giusto per capirci, oggi, forse, il Napoli avrebbe quattro o cinque punti in più e non arrancherebbe all’inseguimento del secondo posto. Oggi più che mai il vero, primo obiettivo della stagione azzurra. Quello senza il quale, detto addio all’Europa, chiunque da De Laurentiis in giù, avrebbe il diritto d’essere scontento. Ma Benitez così è fatto. Certo, ieri sera è stato pure sfortunato, ma sull’uno-due del Porto la sua stagione azzurra è cambiata da così a così. E, scudetti col Valencia a parte, è crollata pure quella storia che lo vuole – o lo voleva – più uomo di coppe e di danari che di bastoni e spade. E pensare che Castro, Luis Castro, aveva fatto di tutto per perdere la gara con quel povero Ricardo, ala destra naturale messo a giocare a sinistra da terzino di grande sofferenza su Mertens oppure Insigne. Ma non è bastato. Alla fine il Napoli ha saputo fare peggio. Peccato.
Francesco Marolda per Il Corriere dello Sport
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