Alla fase finale, svoltasi presso la sala stampa dello stadio S. Paolo, hanno partecipato 14 alunni finalisti. Il premio nato per diffondere la cultura della non violenza, ha visto gli studenti svolgere un elaborato. Prima dell’inizio di ogni partita delle rappresentanze discutevano del problema presso Radio Marte, con il noto giornalista Massimo D’Alessandro. Vi proponiamo il tema del diciassettenne vincitore Marco Nappo dell’ “Ipia G. Caselli Capodimonte”:
Tifo e sportività: fratelli o cugini?
Io sono tifoso del Napoli, la squadra della mia bellissima città. Se dovessi specificare che tipo di tifoso sono, potrei dire che sono un tifoso fanatico anche se, qualche volta, riesco anche a moderarmi. Insomma, dipende dalle situazioni. La maggior parte dei miei amici condivide la mia passione e spesso, quasi sempre, guardiamo le partite insieme. Ci vediamo tutte le settimane, indipendentemente dall’ora, e trascorriamo insieme il tempo della preparazione, tutta la durata della partita e il dopopartita.
Ci vediamo a rotazione nelle nostre case: la prima settimana del mese da me, la seconda a casa di Mario, la terza a casa di Genny e l’ultima da Fabrizio. Il luogo, tuttavia, non è importante. L’importante è stare insieme.
Fin dalla più tenera età sono stato attratto in modo spropositato dalla mia squadra del cuore. Quand’ero piccolo, infatti, andavo spesso allo stadio con mio nonno, il mio mito. E’ lui che mi ha fatto conoscere il Napoli, le sue formazioni del passato e del futuro, i suoi allenatori e i suoi giocatori.
Non c’è un motivo per spiegare l’amore di mio nonno per il Napoli e quello mio. Io non ho mai tifato altra squadra che questa. Se dovessi dire un perché, direi semplicemente che quando penso al Napoli penso a mio nonno. Penso a tutto il tempo trascorso insieme quando era vivo; tutte le partite viste con lui, delle quali ho ricordi vaghi; tutte le domenica in famiglia con lui vestito d’azzurro che cantava il suo coro preferito. Nemmeno oggi mi perdo una partita della squadra mia e di mio nonno. Non mancano mai anche i gesti scaramantici e sono quelli che mi insegnò lui e che mi porto dentro da tutta la vita. La mattina della partita mi alzo in piedi sul mio letto, faccio tre giri su me stesso e do un bacio alla grossa sciarpa azzurra appesa sul mio giaciglio. Metto le pantofole prima al contrario, poi nel verso giusto. Lo faccio sempre perché mio nonno, una volta, sbagliò a metterle ed era proprio il giorno in cui il Napoli vinse la Supercoppa Italiana per 5-1 contro la Juventus. Tutte le domenica ci raccontava questa storia e noi facevamo sempre finta che fosse la prima perché, dopotutto, ci faceva sempre piacere ascoltarla. Al pomeriggio, poco prima della partita e dell’arrivo dei miei amici, mangio metà banana e l’altra metà la conservo in frigo. Quand’ero piccolo facevo sempre a metà con mio nonno. E’ come se avesse un sapore diverso di quando la mangio in settimana. E’ buona e sembra darmi sempre tanta adrenalina. Ad ogni partita metto i calzini del Napoli. Sono tutti azzurri con lo stemma della squadra e, sotto la pianta, hanno una cucitura con le mie iniziali. Mio nonno li aveva uguali, me li fece fare apposta. Sono un po’ consumati dal tempo, ma non importa.
Quando inizia la partita, mi assento. Non intendo fisicamente, intendo che sento di immedesimarmi completamente nel gioco. Mi sembra ogni volta di tornare allo stadio a vedere la partita in prima persona. Sento mio il sospiro di ogni tifoso ad un goal scampato; l’atmosfera di gioia e di emozione che c’è in campo e tra gli spalti. Ogni secondo mi sembra durare una vita. Una vita tonda e veloce che schizza avanti e indietro senza fermarsi mai. Il cuore inizia a pompare all’impazzata appena il giocatore è nell’area di rigore e il goal, quello, è la fine del mondo. E’ un colpo di fucile sparato in un bosco pieno di uccelli appollaiati sugli alberi. E’ come se il cuore si fermasse all’improvviso dopo una corsa infinita. Ma, in realtà, comincia solo a pompare ancora più forte. In quel momento dimentico tutto e tutti, esiste solo la mia squadra e i miei giocatori che avanzano sull’erba. Guardo i tifosi fra le panchine dello stadio saltare e cantare insieme. La loro visione mi rende felice, ma poi la telecamera si sposta sui tifosi della squadra avversaria. Loro non gioiscono. Perché non gioiscono? Certo, perché la loro squadra sta perdendo. Dovrebbero essere felici solo perché sono lì, a viverla in prima persona. Ma io? A me avrebbe fatto piacere? No, non credo. Sono affranti, come lo sarei stato io, come se quella palla di cuoio avesse distrutto le loro vite. Provo dispiacere per loro, ma non posso non gioire per la mia, la nostra conquista. Ad ogni goal non posso non pensare a mio nonno. Ogni volta vorrei che fossi vivo per festeggiare con me, ma poi lo immagino lì, in cielo – se un cielo esiste – seduto insieme ai suoi amici a guardare lo sport che tanto abbiamo amato insieme. Per un momento lo sento vicino a me. Sento le sue urla nelle mie.
Molte volte negli stadi – soprattutto all’esterno – avvengono episodi di violenza inspiegabili.
I tifosi, anche quelli del Napoli, assalgono i tifosi avversari, a volte solo per il gusto di farlo. Allora penso: perché ciò? Perché esistono “tifosi” tanto accaniti da ferire l’avversario? Perché esistono tifosi che, anche ad amici che tifano altre squadre, dicono parole d’offesa? Essere “tifoso” significa appoggiare la propria squadra. Perché per farlo bisogna per forza disprezzare tutte le altre?
Ebbene, anche io quando guardo una partita confesso di provare una leggera antipatia per la squadra avversaria, ma solo perché è lei a ostacolare la mia squadra del cuore. Contro i tifosi non ho nulla, nemmeno contro i giocatori stessi. C’è gente invece che, pur di “difendere” la propria squadra, reca danno alle altre. Io credo che non si tratti di essere tifosi.
“Non può esserci il tifo dove viene a mancare la sportività”, diceva sempre mio nonno. Io sono cresciuto ripensando sempre a quella frase. Aveva ragione! Tutti i tifosi sono, in linea di massima, uguali. Supportano la propria squadra, provano emozioni forti, sia negative sia positive, quando la guardano in azione farebbero di tutto per vederla vincere.
Io credo che ci siano due tipi di tifosi: quelli che “odiano” la squadra avversaria solo per 90 minuti, poiché “ostacola” la propria squadra del cuore, e quelli che odiano tutte le altre squadre. Questi ultimi sono molto complessi. Essi disprezzano le altre squadre, e i loro tifosi, solo perché non si tratta della propria squadra. Io credo che in loro ci sia una specie di paura e di presunzione: temono che le altre squadre possano ostacolare la loro, e allo stesso tempo vogliono essere gli unici in campo e non tollerano altri gruppi di tifosi. Perché? Ignoranza? No, mancanza di principi morali e ideali di vita. Questi tifosi sono quelle persone che non hanno ricevuto un’educazione al tifo e il valore della sportività. I due concetti sono infatti diversi. A mio parere “tifare” significa amare una squadra, supportarla e dimostrare il proprio amore in tutte le sue sfumature. Essere sportivi, invece, significa rispettare le regole, imparare a perdere e riconoscere i propri errori; significa rispettare l’avversario così come si pretenderebbe rispetto dallo stesso; provare stima per lui, quando si viene battuti; ricavare da ogni sconfitta il pretesto per impegnarsi di più la volta successiva. Vedo spesso queste scene di sportività nella boxe e nel rugby, pure considerati sport violenti. O vedo il fair play in alcune, poche in verità, partite, quando una squadra che ha beneficiato di un goal per una svista dell’arbitro o per un infortunio fa in modo di far pareggiare gli avversari. Troppe volte, e la cosa mi lascia amareggiato, si incita al fallo e alle irregolarità; “l’importante è vincere”, si dice, perché senza la tensione per la vittoria non ci sarebbe competizione. È vero. Ma forse l’importante è anche “come” si vince.
Poche sono le persone che oggi sanno cosa significhi essere sportivi. Io non amo essere presuntuoso, ma credo sapere di cosa si tratta e di essere io stesso una persona sportiva.
In passato ho praticato molti sport: pallacanestro, calcio, pallavolo e tennis da tavolo. Le partite mi entusiasmavano molto e, ovviamente, mi saliva sempre un po’ di fifa. Molte volte ho perso, ma non mi sono perso d’animo e ho continuato a sorridere. Vedevo invece i miei compagni di squadra arrabbiarsi, incolparsi fra loro e insultare i componenti della squadra avversaria accusandoli di aver barato. Per questo motivo ho deciso di non praticare più sport di gruppo. Amo la sana competizione, non quella cattiva. Giocare in squadra con persone che non condividono i miei stessi ideali, mi faceva sentire a disagio. Molte volte ho provato a giustificarli mentendo a me stesso ma, quando proprio esageravano, la delusione era tale da farmi provare un grande fastidio.
Ho molto amici che tifano squadre diverse, ma questo non ci ha di certo impedito di guardare i match insieme. Quando a giocare l’una contro l’altra erano proprio le nostre squadre del cuore, l’aria diventava un po’ tesa. Sarebbe stato anormale se non fosse successo. Nonostante ciò, però, abbiamo sempre guardato le partite insieme, guardandoci bene da non esultare troppo per non far dispiacere i nostri amici. Che fosse la mia squadra del cuore o quella di un mio amico a vincere, non era importante. L’importante era festeggiare una vittoria, un match giocato bene, un pomeriggio trascorso insieme, anche sfottendoci, magari, ma continuando a volerci bene.
Questa cultura, anzi: questa educazione, avrebbe forse resa superflua anche la tessera del tifoso. Oggi penso che è meglio che ci sia. Come si dice: a mali estremi, estremi rimedi.
Una delle domande che sempre meno persone si fanno è: perché è nato lo sport? Semplice competizione e forma di svago o valvola di sfogo per le frustrazioni giornaliere?
A mio parere lo sport è nato per contenere gli istinti negativi che sono presenti nella personalità umana. Come ho già detto, è difficile trovare la sana competizione fra due squadre avversarie e gli atteggiamenti dei giocatori sono spesso ostili, aggressivi. Ognuno di noi è costretto a contenere i propri impulsi, i propri istinti per il bene della convivenza e del rispetto altrui. Praticare uno sport è un’occasione per essere diversi e, al contempo, se stessi. Dopo un goal conquistato o subito, si scoprono gli atteggiamenti repressi dei calciatori. La stessa esultanza rappresenta il carattere vero del giocatore. A questo punto si viene a creare una incompatibilità tra due concetti: è giusto non esagerare con l’esultanza per evitare di “ferire” i tifosi avversari, o è più giusto essere se stessi ed essere liberi di sfogarsi nel modo che si ritiene più giusto? La risposta è molto semplice e apparentemente banale. Io credo che bisogna essere se stessi e, se necessario, esagerare con l’esultanza. E’ bene però prestare molta attenzione a esprimersi nei canoni del buon costume e del rispetto altrui. Io, personalmente, molte volte non rispetto questi ultimi. Spesso esulto senza pormi il problema di contenermi per non suscitare fastidi nei confronti degli altri tifosi, anche amici miei. Lo faccio sapendo di sbagliare, ma non cerco di fermarmi. Magari, qualche volta, a fine partita, chiedo scusa per aver esagerato, ma le risposte sono sempre le stesse: “Non ti preoccupare, io avrei fatto lo stesso”. Oppure: “Non hai esagerato affatto. Non mi hai dato fastidio”. In quei momenti mi sento sì felice per essermi tolto un peso dalla coscienza, ma allo stesso tempo penso forse che, se fossi stato in loro, ci sarei rimasto male. Insomma, credo che bisogni rispettare alcune “regole” per essere tifosi e al contempo sportivi, ma a volte sono il primo a non rispettarle. “Errare humanum est” o, in questo caso, “Tifare humanum est”.
La maggior parte delle informazioni sul calcio le ottengo da programmi televisivi e da giornali sportivi. Seguo spesso Controcampo, poiché mi piace sentire commenti di persone esterne sulle partite appena concluse che, talvolta, coincidono con i miei. Altre volte mi è capitato di guardare Studio Sport. Questo è un programma molto interessante dal punto di vista informativo poiché aggiorna costantemente i tifosi degli eventuali cambiamenti all’interno delle squadre, in seguito al calciomercato.
Di questi due programmi televisivi, anche se diversi nel loro complesso, preferisco seguire Controcampo, proprio per i confronti di idee. Esso è infatti molto meno noioso rispetto a Studio Sport.
Il giornale sportivo che leggo assiduamente è il Corriere Dello Sport. Preferisco quest’ultimo alla Gazzetta dello Sport, poiché tratta molto della squadra napoletana. Il più delle volte, infatti, in prima pagina ci sono notizie riguardanti il Napoli.
La Gazzetta dello Sport, invece, tratta solo informazioni riguardanti le squadre del nord, quelle più forti: le volte che ho comprato la Gazzetta, mi è stato possibile solo leggere notizie riguardanti Milan, Juventus e Inter.
Comunque credo che se i giornali dessero più spazio a analisi tattiche, analisi tecniche delle azioni, degli schemi di giocatori e delle squadre ci aiuterebbero a godere delle partite con ben altro gusto e forse ci educherebbero alla comprensione e all’intelligenza. E guarderemmo con tre occhi il campo di calcio, due per il tifoso, uno per il critico.
Forse, così, dal calcio impareremmo anche qualcosa per la scuola.
Marco Nappo, 20 Aprile 2011
Alessandro Sacco
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