Per decifrare il «grazie Maradona» di Paolo Sorrentino bisogna sapere che il regista vomerese ha speso la vigilia della notte degli Oscar in un bar di Rodeo Drive, davanti a un televisore, soffrendo come un tifoso qualunque per il magro pareggio del Napoli a Livorno. Bisogna sapere che al Festival di Cannes del 2011, quando seppe di dovere confrontarsi col film di Terrence Malick, The three of life, sbottò: «È come scendere in campo e scoprire che devi giocare contro Maradona».
Bisogna sapere che fin da ragazzo segue i calciatori azzurri, talvolta anche in trasferta. Bisogna sapere che intervistò Ezequiel Lavezzi per un mensile partendo dalla domanda: «Scusa Pocho, come si fa una rovesciata?».
Pur se di cultura cosmopolita, Sorrentino resta di pelle napoletana nel talento e nell’accento. Ma non è un napoletano di professione, non ostenta le proprie radici, pur se certo non se ne vergogna. Sintetizza la sua identità in genialità e rigore, le facce migliori di quella così detta mal intesa napoletanità che, lo diceva Antonio Ghirelli, in realtà non esiste.
Maradona, secondo Sorrentino, è semplicemente uno dei quattro numi tutelari – con Federico Fellini, Martin Scorsese e i Talking Heads di David Byrne – che lo hanno formato nell’adolescenza, stagione per lui decisiva nel bene e nel male, la stagione in cui perse i genitori uccisi da una stufa difettosa nella loro casetta di montagna. «Quattro campioni nella loro arte che mi hanno insegnato tutti cosa vuol dire fare un grande spettacolo, che è la base di tutto lo spettacolo cinematografico». Volete negare che per Maradona sia vero?
Forse c’è qualcosa di più nel richiamo a Maradona, «L’uomo in più» come recita il titolo del primo film di Sorrentino. Dieguito è in sé un soggetto cinematografico, l’ha detto Emir Kusturica che su di lui fece un film: «Un bravissimo attore, nato per lo spettacolo ma anche più di questo. È diventato un’icona, grazie al suo gioco e ai suoi gol, non per quello che faceva fuori dal campo. Mi fa pensare a Marlon Brando o ad altri grandi attori del cinema. Fuori dalla pubblica arena, non sanno come vivere. Per Diego, la vita ideale sarebbe stata un gioco in cui l’arbitro non fischia mai la fine della partita». Maradona è la grande bellezza di un colpo di tacco, di un pallonetto irridente, di un dribbling fantasioso, di una punizione a effetto. Ha una personalità scissa, imponente sia da angelo sia da demone: una di quelle figure spezzate che a Sorrentino tanto piacciono, da narrare con umanità.
Dieguito ha risposto da Dubai, dov’è in questi giorni pure Gigi D’Alessio, «con grande onore e orgoglio». «Mi sento figlio di questa città, è la vera fonte di ispirazione di noi tutti che l’amiamo. Stanotte ho esultato: i grandi napoletani sono esempi di bellezza e successo nel mondo. Spero di incontrare presto a Napoli Servillo e Sorrentino per vedere insieme il film nell’auditorium di Scampia e illuminare questa città e i suoi giovani. Ringrazio Sorrentino perché ha fatto capire chi è Diego Armando Maradona agli americani». Anche Rafa Benitez ha fatto sentire la sua voce, la sua gioia da napoletano acquisito: «I miei complimenti a Sorrentino, grande regista, che riporta l’Oscar in Italia dopo 15 anni. Un premio Oscar tifoso del Napoli! Complimenti Paolo, sei arrivato al traguardo una partita per volta. E alla fine il bilancio è fantastico. Grande Sorrentino e forza Napoli sempre!».
Ricordarsi di Maradona in uno dei giorni più felici della vita è un bel gesto semplice. È un ricambiare l’abbraccio collettivo per i due scudetti vinti, per la contentezza data alla città. Con lui, seppure su un terreno piccolo come un campo di pallone, son venute vittorie, non chiacchiere e false promesse. Sorrentino l’ha riconosciuto, sfidando gli snob; l’ha fatto con la sincerità che resta un azzardo e presuppone una buone dose di ardimento, in un momento in cui per essere eccellenze sembra necessario dimostrarsi complicato.
Come è ovvio, «La grande bellezza» non cancella il senso di vuoto di questi tempi sbandati. Il cinema italiano non è risorto, è stato solo il lampo di un fuoriclasse alla Maradona. E tanto meno è risorta Napoli. Però c’è almeno una statuetta dorata che sembra dire «si può».
Fonte: Il Mattino.
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